La Valsusa che paura non ne ha

Da INFOAUT.ORG

 

Il testo che segue è stato scritto da Niccolò, Mattia e Claudio arrestati il 9 dicembre scorso, insieme a Chiara. I tre compagni, per quanto isolati dal resto dei detenuti, hanno la possibilità di incontrarsi quotidianamente (Claudio e Niccolò condividono la stessa cella e si vedono con Mattia durante le ore d’aria e di socialità). Chiara è invece in un isolamento pressoché assoluto da ormai più di un mese, dato che nella sezione dove si trova non ci sono altre prigioniere in regime di Alta Sorveglianza. La censura cui è sottoposta tutta la loro corrispondenza provoca notevoli ritardi alla posta in entrata ed in uscita e così solo ora è possibile rendere pubblico questo testo scritto quasi un mese fa.

È di ieri la notizia che il Tribunale del Riesame ha rigettato ogni richiesta della difesa, compresa quella di derubricare i reati e le aggravanti di terrorismo. In aula i Pm Padalino e Rinaudo hanno ribadito come la condotta terroristica dei reati contestati ai compagni non sia da ravvisare tanto nelle modalità più o meno violente dell’azione contro il cantiere del maggio scorso, quanto nel contesto complessivo all’interno del quale questa si inserisce: l’opposizione alla realizzazione della Torino-Lione. A preoccupare realmente la procura torinese e l’intero Partito del Tav, è la lotta ormai ventennale contro il treno veloce, il tentativo di dare concretezza a quel No attorno al quale il movimento si è sviluppato.

Sono appena le 4 del pomeriggio e il sole sta calando dietro l’imponente termovalorizzatore metallico, mentre in lontananza si intravedono le prime montagne della valle e l’immaginazione completa i contorni accennati del Musiné. Siamo qui rinchiusi da 10 giorni ma il nostro pensiero viaggia ancora lontano…
Che la procura di Torino stesse preparando qualcosa di grosso lo sapevano pure i sassi. Lo si capiva dal crescendo di denunce contro il movimento, ma soprattutto da quell’intenso lavoro di propaganda con cui inquirenti, mass media e politici hanno cercato di traghettare la resistenza No tav all’ombra di quella parola magica che tutto permette: «terrorismo». Per mesi interi non hanno parlato d’altro, in un mantra ripetuto ossessivamente volto ad evocare una repressione feroce.
Infine hanno preso alcuni dei tanti episodi di lotta di questa estate su cui questo immaginario suggestivo potesse fare più presa e li hanno stravolti e piegati alla loro visione del mondo fatta di militari e paramilitari, gerarchie, controllo e violenza cieca.
Così hanno fatto per giustificare le perquisizioni di fine luglio, così fanno ora per argomentare i nostri arresti. Ma c’è un abisso tra ciò che vogliono vedere in noi e quello che realmente siamo.
Non ci interessa sapere chi in quella notte di maggio si è effettivamente avventurato tra i boschi della Clarea per sabotare il cantiere – probabilmente non interessa neanche agli stessi inquirenti -. Quello che vogliono è avere oggi qualcuno tra le mani per far pesare la minaccia di anni di galera sul movimento e sulla resistenza attiva, per arrivare tranquilli e indisturbati all’apertura del cantiere di Susa.
Vogliono che le persone restino a casa a guardare dal balcone il progetto che avanza.
Eppure queste persone hanno già gli strumenti per mettersi in mezzo: abbiamo imparato a bloccare quando tutti insieme si gridava «No pasaran» e a passare a colpi di mazza quando il cemento dei jersey ci sbarrava la strada; abbiamo imparato a guardare lontano quando l’orizzonte si riempiva di gas e a rialzare la testa quando tutto sembrava perduto.
Non sarà il terrore che seminano a piene mani a rovinare i raccolti futuri di questa lunga lotta.
Occorrerà continuare a costruire luoghi e momenti di confronto per scambiarsi idee e informazioni, per lanciare proposte e per essere pronti a tornare nelle strade e in mezzo ai boschi.
Si è fatta sera alle Vallette, ma a parte il buio non c’è una gran differenza col mattino, dato che il blindo della cella resta chiuso ventiquattr’ore su ventiquattro: alta sicurezza!
Rispetto ai Nuovi Giunti c’è molta più calma e pulizia, ma l’assenza di contatto umano ci debilita.

La bolgia dei blocchi B, C o F (a parte l’isolamento cui è costretta Chiara) sono un pullulare di storie ed esperienze di vita con cui impastarsi, in cui trovare complicità e solidarietà. Già nel mese scorso, Niccolò, già arrestato a fine ottobre per un altro procedimento, ha potuto constatare come l’eco della lotta contro il Tav sia giunto fin dentro le galere e per molti rappresenti il coraggio di chi ha smesso di subire le decisioni di uno stato opprimente.
Per noi, costretti all’isolamento in una sezione asettica, è di vitale importanza rifiutare la segregazione e la separazione tra detenuti: siamo tutti «comuni». Anche per questi motivi sarebbe bello se all’interno del movimento si sviluppasse un ragionamento e un percorso su e contro il carcere.
La maggior parte delle guardie delle Vallette vive qua, in dei grandi palazzoni all’interno delle mura, loro non si libereranno mai della galera. Per quanto in questa sezione ci trattino educatamente, non si tireranno indietro nel farci rapporto su ordine di un superiore quando decideremo di lottare per qualsivoglia motivo. Allora, coi ricordi che ci teniamo stretti, faremo rosicare questi «portachiavi» per la limitatezza dei loro orizzonti.

«Avete mai visto il mare farsi largo in mezzo ai boschi in un bel pomeriggio di luglio, e scagliarsi e andare contro le reti di un cantiere?»
«Avete mai sentito il calore umano di ogni età saldarsi spalla a spalla mentre gli scudi avanzano, l’asfalto dell’autostrada si fa liquido e le retrovie si riempiono di fumo?»
«Avete mani visto un serpente senza capo né coda o una pioggia di stelle nel cuore di una notte di mezza estate?»
Noi sì, e ancora non ci sazia.

La strada è lunga, ci saranno momenti esaltanti e batoste clamorose, si faranno passi avanti e si tornerà indietro, impareremo dai nostri errori.
Per ora guardiamo il nostro carcere negli occhi e non è facile, ma se «la Valsusa paura non ne ha», noi di certo non possiamo essere da meno.

Niccolò, Claudio, Mattia

Fonte infoaut.org

Immagine: radiocane.info


La penetrazione del virtuale

tom wesselmann

Li chiamano “erbivori”, come gli animali che si nutrono di sola vegetazione, senza conoscere il piacere succulento della carne, la sfida inebriante della caccia, la velocità felina dell’agguato. Sono tutti coloro che cercano una sessualità puramente virtuale, veicolata da video, chat, social network, e da essa si ritengono completamente appagati, in essa trovano il proprio estatico godimento. Tutti coloro che rinunciano all’odore e al sapore della carne e dichiarano di non provarne nostalgia o, per i più giovani, di non desiderarlo affatto.

Nato nel Giappone dal volto inquietante degli hikikomori, l’amore puramente virtuale si è diffuso in tutto il mondo e attraversa oggi una fase di crescita esponenziale, soprattutto tra gli adolescenti. Sempre più persone utilizzano infatti il web per esplorare e stimolare la propria sessualità, cercando nel deserto delle sue informatiche trame oasi di eccitazione, spiragli di calore umano. Una dinamica che nasce in connessione allo sviluppo di un mezzo tecnologico, la rete, e all’ampliamento quantitativo e qualitativo del suo bacino di potenzialità, determinando nei suoi utenti quelle che Baricco definiva “mutazioni antropologiche”. Lungi dal costituire uno strumento neutrale che può essere sfruttato e manipolato liberamente dalle persone per soddisfare i propri bisogni, internet sta poco a poco plasmando l’uomo a sua immagine e somiglianza, diffondendo linguaggi, automatismi percettivi, ritmi, dinamiche sociali, comportamenti. Un processo inevitabile, inscritto nell’esistenza stessa di ogni tecnologia, nella dialettica estremamente complessa della strumentalità, mai riducibile a mera e passiva medietà rispetto ad un fine determinato, ma capace di retroagire in maniera profonda sul soggetto che la pratica.

Il ricorso all’amore virtuale in sostituzione all’amore in carne ed ossa rappresenta uno scalino ulteriore in questa direzione: in esso diviene particolarmente evidente la penetrazione del monopolio tecnologico fin nei recessi più intimi della psiche umana, la sua capacità di totalizzare anche la dimensione più segreta e profonda del nostro essere. Una porzione sempre crescente di persone, in maggioranza ragazzi/e, non si limita infatti ad integrare la propria sessualità con immagini e stimoli virtuali, ma in essi si trincera in maniera esclusiva, ad essi sacrifica la realtà, la concretezza dei corpi, l’universo sensoriale che accompagna lo scambio sessuale, innescando una spirale comportamentale che conduce molte di loro a non essere più in grado di adottare una relazionalità “normale”, diretta, con gli altri. O, peggio, a non desiderarla più.

Quasi si fosse affievolita, oggi, la voglia e la facoltà di costruire relazioni, nel senso più profondo di condividere ciò che si è ed il proprio percorso, di mettersi in gioco per davvero, di offrirsi “nudi” allo sguardo critico dell’altro, alla possibilità sempre latente di un suo giudizio negativo, di una sua presa di distanza. Ci si abbandona alla ricerca di un’eccitazione episodica e discontinua, vorace e nichilistica come gli attacchi di fame di un bulimico, che si sottrae all’assunzione di responsabilità che ciascun rapporto interpersonale di per sé richiede, in quella che pare l’ennesima manifestazione della generale deresponsabilizzazione del singolo che l’edonismo della società del consumo ha innescato.

A separare sé dall’altro l’algida superficie di uno schermo. A separare il proprio immaginario dalla concretezza intrinsecamente ambivalente della realtà una barriera protettiva insuperabile. Si preferisce allora rimanere nel conosciuto e rassicurante involucro del proprio fantasmatico desiderio, piuttosto che sottoporlo alla prova dell’incontro effettivo con l’altro, all’amara frustrazione che può derivarne. Un’incertezza che la dimensione virtuale non prevede, costituendosi in sé come puro immaginario, fantasia esposta e trasfigurata in immagine, cristallizzazione traslucida del desiderio stesso le cui traiettorie e velocità sono modulabili a piacere e i cui binari corrono paralleli verso stazioni programmate, senza le continue deterritorializzazioni centrifughe del reale, ma, allo stesso tempo, senza il fascino insostituibile della sua indecidibilità.

La pornografizzazione dell’atto sessuale, nell’esplicitazione ossessiva della nudità, nello zoom vertiginoso sul coito, ha finito per estirpare di fatto la sua malìa, la curiosità fremente nei suoi confronti. Ha privato l’amore del mistero, della sorpresa, trasformando il sesso in un meccanismo, pratica atletica soggetta ad indici di prestazione e valutabile attraverso gradazioni predefinite di soddisfacimento. Un contesto nel quale l’amore romantico, quello intriso dell’angoscia sublime nei confronti della risposta dell’altro, non trova più spazio, sostituito da un amore meramente narcisistico, in cui il soggetto resta avvinghiato in un circolo chiuso con se stesso e l’altro appare solamente come oggetto di stimolazione esterna.

Per quale motivo stentiamo oggi ad accettare che l’universo del nostro immaginario sia costretto a confrontarsi con la realtà dell’altro? con la sua puzza, con la sua stanchezza, con la sua goffaggine? più semplicemente, con la sua eterna e sfuggente alterità? Addestrati dalla società dei consumi a volere e ad ottenere senza fatica soddisfazioni continue, sembriamo divenuti incapaci di affrontare la benché minima discrasia dello stato di cose rispetto ai contenuti del nostro desiderio, di gestire una frustrazione che abbiamo disimparato a conoscere nell’universo baloccato dell’iper-stimolazione pubblicitaria.

Se mai come oggi, grazie al proliferare di mezzi tecnici atti alla riproduzione e rappresentazione di immagini, reale e virtuale tendono a sfumare l’uno nell’altro, a divenire indiscernibili, appare sinistramente profetica l’analisi della società dello spettacolo di Guy Debord come dimensione in cui il mondo delle merci si salda con il mondo dei media facendo slittare la realtà nella finzione dell’immagine. In cui l’individuo finisce per vivere come felicità quel che non è altro che la solitudine di una contemplazione alienante. In cui l’appropriazione reale viene sostituita dall’appropriazione immaginaria.

E forse sta proprio qui il significato più profondo del fenomeno “erbivoro”, nel soffermarsi interrogativamente sulla sabbiosa terra di mezzo tra reale e immaginario, tra fatticità e desiderio. Nel mettere in questione la loro presupposta differenza e la possibilità di attribuirgli un diverso grado di verità. Un limite in cui rischia di incorrere anche l’ultima grande forma di critica radicale, quella che denuncia la spettacolarizzazione del reale, nel momento in cui aderisce ancora una volta ad un modello classico del reale contrapposto all’apparenza, mentre non c’è physis che non sia anche techne, non c’è presentazione che non si dia già come rappresentazione. Per dirla con le parole di Jean-Luc Nancy, “non c’è società senza spettacolo, poiché la società è lo spettacolo di se stessa”.

di Klopf

Immagine: Tom Wesselmann


Quelle labbra cucite sull’istituzione carceraria

archivi.articolo21.org Non sono facili da dimenticare, le bocche cucite dei migranti rinchiusi nel Cie di Roma. Un fendente lanciato nell’immaginario collettivo proprio nel momento in cui le feste natalizie sono solite saturarlo con la loro caramellosa leziosità. E mentre le nostre labbra sono lì, a spalancarsi, un po’ gaudenti un po’ nauseate, di fronte alla consueta sovrabbondanza di cibi e leccornie, le loro si serrano in un sinistro silenzio, i due lembi congiunti da un filo sottile. In sè l’immagine è meno truce di quanto la penseremmo, di quanto, forse, la vorremmo per poterci indignare con adeguato vigore: non c’è sangue, né piaghe o bubboni, né tagli o ferite purulente, contorsioni o dolore evidente. Due piccoli fori e il filo strappato a un maglione, a una felpa. Inspiegabilmente pulita, quella bocca che, muta, ci interroga. Un gesto che, pur non rinunciando alla potenza simbolica dell’immagine in una società mass-mediatica, rinuncia al compiacimento della propria esibizione cruenta, rinuncia a spettacolarizzarsi fino in fondo e sceglie una forma di dolore auto-lesionistico la cui forza non sta tanto in ciò che si vede, in una carne che sanguina, ma in ciò che non c’è: nelle parole che quelle labbra non dicono, in quella voce di sofferenza imprigionata volontariamente in un corpo a sua volta imprigionato. Un gesto di incredibile dignità.

“Chiudete i CIE!”, si urla finalmente a gran voce. Quasi a confermare sadicamente come le denunce verbali, le inchieste, le parole – tutte concordi da anni in una critica serrata all’esistenza dei Cie – siano in sé del tutto insufficienti a determinare l’azione politica, se non correlate ad un movimento di quest’entità fantasmatica, la pubblica opinione, che come un campo di spighe si piega ai venti dell’indignazione emotiva, abilmente soffiati dal sistema dell’informazione.  Ma la reazione morale alla protesta dei migranti carcerati non è la reazione appropriata, dal momento che rimane nel campo passeggero e aleatorio dell’emotività e contribuisce in tal modo all’occultamento della questione politica e sociale sottostante: in quale sistema politico si inserisce la struttura dei Cie? che tipo di rapporto con i migranti, con gli stranieri, sottointende? in quale maniera essa è funzionale alla nostra società? Sono queste le domande che il gesto disperato dei detenuti dovrebbe sollevare, piuttosto che trasformarsi in scontata e superficiale condanna o, peggio, essere utilizzato come spot pre-elettorale dai vari Khalid Chaouki di turno.

È lo stesso tipo di approccio che da tempo viene adottato anche nei confronti dell’istituzione carceraria, di cui il Cie è un’emanazione diretta. Un approccio umanitario pilotato con cura, basato sullo scandalo nei confronti di violenze e soprusi da parte delle guardie, che però non sfiora nemmeno le basi dell’istituzione stessa di cui la violenza, indipendentemente dalla forma che assume, è ossatura portante, significato e strumento. Come scrive Benjamin in Per la critica della violenza, infatti, non è che un’illusione ottica il pensare violenza e diritto come contraddittori: nella conformazione moderna della nostra società essi si implicano, al punto che la violenza si pone come fondatrice e conservatrice del diritto stesso. In questo senso il carcere non è un problema etico, realtivo esclusivamente al livello di sofferenza che viene imposto ai corpi, ma un problema politico, che come tale va affrontato e risolto.

L’inumanità del carcere, l’inumanità del Cie non sta quindi solo nelle angherie dei secondini, nella sporcizia, nel sovraffollamento, nelle docce similnaziste antiscabbia, ma nella segregazione in sé. Non possiamo indignarci per i primi, senza contestare in maniera assoluta la seconda. Prima che abuso sui corpi, essa ne è infatti disgregazione interiore, meno appariscente, ma ben più radicale. L’azione sapiente del potere statale è consistita probabilmente proprio nel giocare su questo equivoco di fondo: si è rinunciato (almeno ufficialmente) ad un eccesso di violenza corporale, alle torture, alla pena di morte, senza rinunciare però all’esercizio della vendetta sociale. Si è sostituita l’intensità di una ghigliottina, di una scudisciata, alla durata interminabile di un’eterna ripetizione dell’uguale, spacciando questo tormento per “giustizia”. Il gocciare del tempo al posto dello scorrere del sangue.

È all’interno di questo percorso che va letto il gesto delle bocche cucite. Il ricorso sempre più frequente all’autolesionismo, tanto nei Cie quanto in carcere, sembra la naturale espressione da parte dei detenuti di una violenza inesorabile che viene loro quotidianamente inflitta, che non ha più la forma diretta di un manganello o di una frusta, che è stata cioè in qualche modo “disinfettata” in nome del principio di intangibilità dei corpi, ma che continua a sussistere perché carne stessa dell’istituzione carceraria. Se la cosiddetta umanizzazione delle carceri ha significato semplicemente una mera regressione della violenza viva sui corpi, trasformata in logoramento della loro interiorità, la carica di violenza che pur continua a scorrere tra quelle sbarre non può che esplodere e manifestarsi in una pratica autolesionista e autodistruttiva, in una protesta disperata contro quella che Alain Brossat chiama la “menzogna della pacificazione” dei costumi carcerari: asettici, ma ugualmente (se non più) intollerabili.

Oltre all’autolesionismo, il silenzio. Una bocca cucita è una bocca che rinuncia alla parola, poiché ne comprende la tragica inutilità, l’assoluta impotenza. Ci si cuciono da sé le labbra per mostrare al mondo che esse ci vengono quotidianamente cucite, quasi che la riproposizione in forma volontaria di un sopruso di cui siamo vittime passive rafforzasse simbolicamente la drammaticità e l’ingiustizia di quel sopruso. Ma il silenzio, all’interno dell’istituzione carceraria, non è un caso. Il detenuto è per essenza il soggetto privato del diritto alla parola, proprio perché è il linguaggio a fondare e garantire l’esistenza della società civile e il carcere nasce con lo scopo precipuo di escludere l’uomo dalla società, di reciderne i legami, di renderlo numero e oggetto inerte. Il linguaggio, esattamente ciò che nella tradizione filosofica occidentale rende umano l’uomo, discriminandolo dalla bestia animale.

I Cie non sono che l’esaperazione di queste dinamiche. Per i migranti, uomini per definizione posti ai margini, fuori margine, il carcere diventa un luogo naturale. E perfino peggiore è la loro condizione: privi di colpa, esenti da pena, espropriati perfino della possibilità di contare alla rovescia un tempo preciso, finito, ignari del loro futuro e delle cause del loro destino, essi non possiedono nemmeno lo status di detenuti. Rinchiusi per il semplice fatto di essere “altro”, un altro non assimilabile, non comprensibile, non già addestrato all’ideologia imperante. Come “altro” sono i carcerati, estromessi e posti ai margini del sociale perché incapaci di accedere al consumo cui il loro desiderio viene continuamente sovra-stimolato.

Perché la nostra società, per reggersi, per funzionare come dispositivo sicuritario, come dispositivo di potere, ha un bisogno endemico di una categoria di esclusi. Siano essi migranti o delinquenti. E il carcere oggi gioca esattamente questo ruolo, decisivo, di produzione di un’alterità, illusoria e rassicurante, tra l’uomo “ordinario” e il criminale/lo straniero (due categorie che sempre più tendono a confondersi), come se tra di essi sussistesse una qualche differenza essenziale. Come se ciascuno di noi avesse in fondo bisogno, per mantenere la propria identità, di circoscrivere e negare tra quattro mura ciò che di sé non vuol vedere, riconoscere, ammettere. Ma è una frontiera assai labile quella che la serenità del nostro guardarci allo specchio individua, una frontiera che non pare più difendibile dopo che i regimi totalitari del ‘900, con la drammaticità della loro evidenza, hanno trasformato l’uomo “medio” in un criminale di massa, complice attivo di un delitto collettivo.

Un formidabile laboratorio di pratiche disciplinari, dunque, capace di produrre il diverso di cui necessita e di separarlo dal corpo popolare in nome di una fantomatica sicurezza collettiva, cui la nostra società, oggi, non è disposta a rinunciare. Soprattutto in una fase storica in cui, limati i diritti garantiti in passato da un modello assistenzialistico, allo Stato fa comodo spacciare povertà ed emarginazione non come problemi collettivi e sociali, ma come il risultato esclusivo della condotta del singolo. Del “criminale”. Una pratica che permette allo Stato di deresponsabilizzarsi rispetto ai propri prodotti, limitandosi a cercare quelle che Ulrich Beck definisce “soluzioni biografiche per problemi sistemici”. Ma non sarà la distruzione della vita di un singolo a redimere le contraddizioni laceranti della società contemporanea, né l’internamento sistematico dei migranti ad esimerci dal ripensare la nostra identità in funzione dell’incontro/confronto con l’altro, con lo straniero, imprescindibile in un contesto globalizzato. Ecco perché né l’orizzonte simbolico di labbra serrate, né le urla indignate della pubblica opinione sono sufficienti a minare le fondamenta dell’istituzione carceraria e delle sue propaggini nella psiche collettiva ed individuale dei cittadini, ma vanno inquadrati ed integrati all’interno di una critica complessiva del sistema stesso che le origina come strutture cardinali. È sul piano quindi di una modifica strutturale che la questione può essere affrontata, in un’ottica politica, economica e sociale. Il soffio del vento moralistico o della pubblicità spettacolare, oggi come ieri, non basta.

di Klopf

 

Consiglio bibliografico: Alain Brossat, Scarcerare la società

Immagine: archivi.articolo21.org


Le saracinesche abbassate dell’informazione

Abdul Raheem Yassir cartoonUno dei risultati più importanti della manifestazione del 19 Ottobre a Roma è stato l’aver portato chiaramente in superficie l’immensa trama di produzione dell’egemonia politica e culturale che sottende al sistema dell’informazione. Che i media siano abili manipolatori di dati è affermazione ormai datata, ma è utile anche questa volta non limitarsi ad asserirlo genericamente, quanto piuttosto mostrarne la prassi concreta attraverso un esempio specifico. È utile non solamente a chi in cuor suo non ha sospetto alcuno nei confronti dei circuiti mediatici mainstream, ma ugualmente e forse ancor più a coloro che ritengono di possedere una coscienza autonoma, di essere in grado di riconoscere e scansare le trappole di queste sireneiche bocche della verità. A coloro che a Roma avrebbero voluto esserci, che condividono la sensibilità e le tematiche dei movimenti che sfilavano scandendo slogan, ma hanno preferito non partire per non rimanere intrappolati in una giornata che si preannunciava epocale per durezza e generalità degli scontri. A coloro che “Erano anni che non mi capitava di sentire una chiamata alle armi così violenta!” e “Tira troppo una brutta aria!”. Perchè purtroppo anche su di loro l’imponente operazione di intimidazione condotta da quotidiani e televisioni, ripresa e rilanciata dal passaparola, ha finito per produrre gli effetti sperati.

Proviamo a sfogliare Repubblica, colosso dell’informazione italiana, in prima linea nella determinazione delle curvature d’umore della pubblica opinione. Un quotidiano che, per altro, si spaccia come appartenente all’orizzonte culturale del centro-sinistra.

19 Ottobre. “Le parole chiave: sollevazione e assedio“, comincia proprio così l’articolo sull’imminente corteo, a firma di Carmine Saviano. Sollevazione e assedio, due termini che rimandano ad un clima di guerra, a fazioni che si combattono, a spade, ferro e fuoco. Inizio promettente. “Con diversi convitati di pietra: la cosiddetta “galassia antagonista” e una serie pressoché infinita di piccole sigle, dagli anarchici agli ultrà.” Convitati di pietra, come a dire che sono sempre gli stessi, quelli instancabili che non mancano occasione per attaccare briga, così, in maniera centrifuga, giusto perché si annoiano o hanno un gran brutto carattere. De coccio, come si dice a Roma. E poi i cosiddetti “antagonisti”, tra virgolette come ciò che è folkloristico o semplicemente riportato, che è privo di un autentico riconoscimento e al tempo stesso di difficile determinazione. E una serie infinita di piccole sigle, un’accozzaglia confusa, caotica, priva di una qualche connessione e di effettiva consistenza poiché dispersa, disgregata, polifonica. Un pot-pourri della feccia, degli ultimi, dei facinorosi. Sullo sfondo della eterna e nobile Roma, ancora una volta costretta a offrire il suo dolente fianco di antico splendore alle ridicole schermaglie del volgo. Una città deserta, dove le mamme trattengono i figli in casa, le metropolitane zoppicano, le biblioteche spengono le luci e i negozianti tengono chiuse le serrande. Una città i cui abitanti scostano le tendine e trattengono il respiro. Come stesse per passare un tifone.

<Quella di svolgere una manifestazione pacifica sembra essere, nella notte di San Giovanni, una volontà comune, un desiderio che attraversa i ragazzi che assistono ai concerti e gli organizzatori della giornata. Si spera nel meglio. Anche se i segnali arrivati durante tutta la giornata di ieri parlano di rischi seri e di possibilità concrete che la situazione precipiti. Il fermo di cinque cittadini francesi; l’inseguimento, al Pigneto, di un gruppo di “incappucciati” che seguivano da lontano la manifestazione dei sindacati di base; il ritrovamento, in Viale Regina Elena, di un furgone con armi contundenti. E il dispositivo di sicurezza delle forze dell’ordine è imponente: quasi cinquemila unità sul percorso della manifestazione, operazioni di bonifica, controlli e posti di blocco nelle zone di accesso al percorso del Corteo. E gli allarmi dell’antiterrorismo crescono in intensità di ora in ora: l’ultima “misurazione” parla di “rischio 5”. Il G8 di Genova, era classificato “rischio 6,5”>. È un pericolo che cova sotto la cenere, che vola rasoterra. Piccoli segnali che sembrano preludere al peggio. Si può solo sperare. Nessun cenno dubitativo sulla legittimità degli arresti preventivi condotti alle frontiere, sulle politiche di perquisizione indiscriminata e di blocco o ritardo dei pullman indesiderati. E infine, ciliegina sulla torta, lo spettro di Genova, a risvegliare un immaginario nazionale fatto di urli, sangue, pietre, botte, felpe col cappuccio. Un immaginario in cui si sta ben attenti a non includere mai né i tonfa della Diaz o le torture di Bolzaneto né lo sdegno per l’irrisorietà della pena finale inflitta alle forze dell’ordine responsabili delle sevizie. Il fantasma di Genova spaventa sempre a senso unico.

20 Ottobre. “Niente cariche, facciamoli giocare”: quell’ordine dalla sala operativa per vincere la partita, titola a caratteri cubitali Carlo Bonini. L’articolo che racconta la giornata di manifestazione è riassunto in questo, una partita, quasi fossimo dentro un videogioco di guerra e stessimo parlando di strategie di posizione e combattimenti infantili fra soldatini, anziché della disperazione e della rabbia di migliaia di persone. Nel giorno in cui sono le persone a camminare, a diventare per un momento partecipi, attive, attraverso la discesa simbolica in piazza, Repubblica sceglie incredibilmente come prospettiva narrante unica quella delle forze di polizia, soffermandosi sulle strategie di controllo e sulla predisposizione del campo al fine di arginare ogni possibile focolare di scontro. Il seguito dell’articolo è, se possibile, di ancor maggiore cattivo gusto del titolo. “Come un wargame, il pomeriggio di Roma declina, anche nella sua autorappresentazione, un gioco di ruolo in diretta. Con le strade sgombre di auto e cassonetti. Le saracinesche dei negozi tirate giù. Le sale operazioni di Questura e Comando provinciale dei carabinieri attrezzate come avveniristici gabinetti di guerra. Immagini dall’alto nel volo ininterrotto degli elicotteri, immagini da telecamere fisse, immagini da diretta tv, nel cicalio continuo delle comunicazioni radio fra reparti, dirigenti, posti di vigilanza fissi. Per poter alla fine misurare, quando scende il buio, e alle “truppe” arriva il “messaggio di congratulazioni” del ministro dell’Interno, chi vince e chi perde in uno scontro sapientemente annunciato da settimane sui due lati della barricata come un Armageddon.”

Non una parola sui contenuti politici del corteo, sul suo significato sociale, sulla sua fisionomia intrinseca, sulla partecipazione straordinaria degli immigrati, sulle prospettive che esso apre, sulle dinamiche che lo hanno prodotto. In sua vece un climax da spy story sull’organizzazione del dispositivo di sicurezza, che si sofferma compiaciuto sul massiccio dispiegamento di mezzi tecnici e forze umane, sugli elicotteri che sorvolano le strade, sulle telecamere della Digos che non perdono un singolo fotogramma degli eventi né un solo neo dei volti, sui “cavalli di Troia” appostati nei paraggi degli obiettivi sensibili. Come se questo tipo di iper-controllo dovesse tranquillizzarci, rassicurarci sull’efficacia della materna protezione che lo Stato ci riserva, anziché terrorizzarci per la sua tentacolare penetrazione e repressione, ben più inquietante di quanto possa esserlo qualche pietra scagliata contro una vetrina. Un racconto che si chiude in modo coerente con le premesse:

Succede così che a nemmeno un’ora dalla partenza la “sortita” verso Casa Pound, la roccaforte dei “fascisti del terzo millennio”, attrezzati all’uopo con mazze, caschi e bastoni per “difendere” l’edificio che occupano, venga assorbita e spenta da un rapido dispiegamento di cordoni di polizia e carabinieri. E succede anche che, intorno alle 17, quando la manifestazione raggiunge la stazione Termini, quei “200” siano ormai seguiti istante dopo istante dalle telecamere dal basso e dall’alto. Che ne filmano i volti e ne anticipano le mosse. “Perché a questo punto – dice un ufficiale dell’Arma – gli resta un solo obiettivo. Il ministero dell’Economia”. E così sarà. Qui, è l’unico contatto violento del pomeriggio. Per l’ordine di carica, il Questore Della Rocca attende fino a quando non è evidente che l’urto non scatenerà una bolgia sul resto del corteo. “Carichiamo solo per fare arresti”, comunica ai dirigenti in strada. “Ripeto, solo per fare arresti”. Il wargame finisce qui.”

La polizia fa sfoggio della sua destrezza nel non cadere nella trappola della contestazione, nel misurare con cautela e saggezza ogni singola mossa, e di questo viene lodata nei quotidiani del regime. Intrappolati in una sorta di delirio paranoide, si finisce per essere riconoscenti alle forze dell’ordine per aver evitato un pericolo ed una violenza che erano il frutto esclusivo della loro fantasia e scaltro prodotto della produzione simbolica e culturale originata per l’occasione dal potere. E nell’ondeggiare di walzer di questo “wargame”, a fare notizia è semplicemente il fatto che non vi siano stati scontri, la negatività di un evento fantasmatico, anziché la positività di quello reale: la rivendicazione da parte della popolazione civile del proprio diritto a vivere in una casa, ad avere un salario che consenta un minimo di dignità, a difendere il proprio territorio dalle trivelle dissennate della speculazione. Ma tutto ciò passa sullo sfondo. Tutto ciò deve rimanere sullo sfondo, lontano dalla comprensione, dall’attenzione e, soprattutto, dalla partecipazione dei più.

Cala la sera, sulla grande bellezza di Roma, e sui sanpietrini intatti tornano a scivolare le rotelle dei passeggini. Di questa lunga giornata non resta che qualche tenda, chissà dove, forse più in giù, un esercito traballante di bottiglie di birra vuote allineate sui davanzali e il rammarico sussurrato in romanesco, a denti stretti, dei commercianti per aver perso inutilmente una giornata di lavoro. Chissà che sia almeno l’ultima volta, quest’anno, che gli assurdi capricci di una banda di teppisti e scansafatiche costringono il consumismo a calare per un istante spesse palpebre d’acciaio sui suoi occhi luccicanti.

di Klopf

Immagine di Abdul Raheem Yassir, vignettista iraqueno.


Cronache da Dissenzia

40b5b5295ef1de0f509cd965c10fc45a_XLDissenzia è una città piccola piccola. Le sue fondamenta sono fragili, poggiano su un terreno un poco instabile. Dissenzia è invero una città particolare. Non teme le frane di montagna, né il vibrare furioso della terra, ma vive in un limbo fatto d’onde e salsedine, un limbo che ne é croce e delizia, magica bellezza e sussurrante minaccia. È così bella, Dissenzia…scrigno di silenzi e di semplici riti, conchiglia di un mondo d’altri tempi, e ad ammirarla vengono in molti: spose dagli occhi a mandorla su piedini piccoli piccoli, artisti avvolti in mantelli bohémien, speculatori d’ogni sorta. Chi davanti ai suoi tramonti acidi si innamora, chi nell’aria ferma inizia a detestarsi.

Vengono in molti, in molti, sempre di più. Così tanti che a Dissenzia succede una cosa strana. Come una bottiglia dimenticata sotto il rubinetto, Dissenzia si riempie di nuove persone, e quelle che prima vivevano lì tracimano fuori dai suoi bordi, sotto la pressione del flusso incessante. Sono tristi, le profughe gocce di Dissenzia. Dover dire addio a quell’ampolla dalle morbide forme…Non vorrebbero andarsene, ma…e i ma scorrono sulla punta delle dita in un elenco che si fa così lungo da trasformare le alternative in utopie.

Nel doppiofondo di Dissenzia, come nella fodera di un vecchio cappello, abita da qualche tempo uno stregone malvagio. Le sue armi non tuonano, non roboano, non esplodono, non pesano e non richiedono alte tecnologie per essere trasportate. Sono sottili, leggere, mobili. Passano inosservate di tasca in tasca. I poteri del vecchio sciamano non conoscono limiti: mentre il suo esercito di grandi draghi sputa-diesel circonda la città, egli trasforma con il tocco di Mida ogni casa che incontra in lussuosa reggia, ogni tozzo di pane in lingotto vitreo, ogni ufficio in agenzia. Molti sono gli appelli al re di Dissenzia, che fermi la fattura, che esorcizzi la paura! ma, da bravo re, egli non pensa che al luccichìo del proprio castello e alla sazietà dei suoi molti vassalli. C’è perfino chi mormora che lui e lo stregone si conoscano, siano stati un tempo compagni di simposi, ma del resto a Dissenzia, sull’onda del vino, si mormora molto…

A Dissenzia succede però ancora qualcosa, qualcosa di strano. È una città piccola piccola, con un nemico grande grande, eppure a Dissenzia qualcuno vuol bene davvero e decide di provare a fermare il malefico stregone, in barba all’impavido re. Sono pochi pochi. Pochi davvero. Sono pochi quelli su cui le armi del vecchio fattucchiero non hanno ancora agito, pochi quelli che non esauriscono il proprio entusiasmo nell’ebbrezza delle feste, pochi quelli che dopo tante ore di pala e piccone non si accasciano sfibrati e vuoti davanti alle ombre di una magica lanterna. Si riconoscono, tra pochi, quando si incrociano. Alcuni vestono un po’ strano, rinunciano a cipria e parrucca, altri hanno semplicemente un’aria più stanca ed una luce diversa nello sguardo.

Si formano dei capannelli. I pochi discutono, progettano, rivendicano, sognano. Le parole diventano energie, le energie azioni. Ma più le azioni crescono, più i pochi, inspiegabilmente, iniziano a litigare sul da farsi e sul come farsi. Volano accuse, parole grosse, qualche ceffone, insulti di nuovo conio. Arraffone! Trotzkista! Anarchico! Licantropo! Stalinista! Gandhiano! Caimano! Verticista! Orizzontale! Barbablu! E così quei pochi si dividono, con l’intenzione di non incontrarsi più, ed ognuno di loro, da quel giorno, si dà un nome e cerca da solo le armi più opportune per combattere il vecchio stregone, accusando gli altri di esserne gli occulti apprendisti. Hanno gli stessi slogan. Le loro battaglie sono le stesse battaglie. Lo stesso nemico. Ma i pochi si siedono intorno a fuochi diversi, non si spartiscono le scarse vivande e diventano pochissimi gruppi di pochissimi. Ogni tanto uno di loro esce a fiutare l’aria e, come un cagnolino impaziente, marca con i propri odori il terreno. Ringhiano quei pochi, quando il piccolo terreno, nella città piccola piccola, li fa incontrare. E si mordono la coda.

Ghigna soddisfatto invece il vecchio stregone. Dissenzia è una preda facile facile. Aveva temuto, per un istante, di avere forse un tantino esagerato, di aver preteso troppo, troppo velocemente…in fondo anche i peggiori sortilegi vanno fatti con gradualità, per non spaventare, per abituare le vittime. Insomma, è l’abc della stregoneria! Invece questa volta tutto è andato per il meglio: i pochi che potevano minacciarne l’operato non smettono di segmentarsi convulsamente come trucioli in una segheria impazzita e le giovani donne si fanno belle e sventolano fazzolettini di lino bianco in saluto ai suoi grandi draghi. Quasi troppo facile…In effetti comincia ad annoiarsi un poco, il vecchio stregone. Affondare il coltello nel burro non dà certo lo stesso gusto di addentare una braciola al sangue. Sospira, rammentandosi che ormai è diventato vecchio. È vero che si è sempre pensato eterno, ma…quel fastidioso schricchiolio nelle ossa, quando si piega, comincia un po’ a preoccuparlo. Per fortuna che nessuno dei suoi nemici, intento com’era a guardarsi allo specchio, se n’è ancora accorto!

di Klopf

Immagine ilcarrettinodelleidee.com


Gli Italiani e l’ABC della democrazia

cultural-decadence-smallSono usciti due giorni fa i risultati dell’analisi condotta dall’Ocse sulle competenze alfabetiche, matematiche ed informatiche dei cittadini adulti di 24 paesi, compresi nella fascia d’età tra i 16 e i 65 anni. Nonostante l’effettiva significanza di questo tipo di rilevazioni sia difficile da valutare oggettivamente, data l’arbitrarietà dei criteri, dei parametri e dei metodi in base ai quali esse vengono condotte, l’immagine che se ne ricava non è affatto confortante. L’Italia ne esce infatti con una sonora bocciatura: all’ultimo posto in assoluto per competenze di lettura, al penultimo per la capacità di far di conto e di utilizzare in modo efficace le tecnologie informatiche.

Un quadro talmente grave da rivelare la presenza nel nostro paese di un radicato, quanto drammatico “analfabetismo funzionale”. Siamo cioè tecnicamente in grado di leggere e scrivere, ma non siamo praticamente capaci di servircene nella vita quotidiana. Non sappiamo compilare in modo corretto una domanda d’impiego, non capiamo del tutto le clausole di un contratto che pur firmiamo, ci smarriamo di fronte a tutto ciò che è scritto, che si tratti delle geroglifiche istruzioni di montaggio di una scrivania Ikea, di un quotidiano dimenticato in un bar, di decifrare i cartelli stradali, di cercare una parola che non conosciamo in un dizionario piuttosto che di azzeccare l’orario dell’autobus nella tabella apposta alle fermate.

Il nostro punto debole? In assoluto la literacy proficiency, ovvero la capacità di “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Il 28% degli italiani, infatti, è in possesso del livello più basso di competenze nella lettura, contro il 15% degli altri cittadini Ocse e il 12% dei norvegesi. Significa che quasi un italiano su tre, se legge un libro o qualsiasi altro testo scritto, riesce a carpirne esclusivamente le informazioni più semplici, senza poterne afferrare davvero il senso globale. E in un mondo in cui la capacità di utilizzare gli strumenti informatici come fonte di conoscenza e di operatività è fondamentale – dalle previsioni del meteo, alle destinazioni dei voli aerei alla ricetta del risotto alla milanese – gli italiani vanno a fondo: non solo non conoscono le risposte ai quesiti relativi alla dimensione informatica, ma non riescono nemmeno ad utilizzare il computer per rispondere ad essi durante il test! Se non fosse la realtà di una popolazione, sarebbe una barzelletta divertente…

L’amara conclusione è che il 70% degli italiani risulta dotato di competenze ampiamente sotto la soglia di quel “minimo indispensabile per vivere e lavorare nel XXI Secolo”. Il tasso di analfabetismo funzionale di un paese è inoltre uno degli indicatori comunemente accettati del suo livello di povertà: chi è analfabeta fatica a trovare anche un lavoro di minima qualificazione o, per dirla con le curiose parole di Giovannini, è “poco occupabile”, ma d’altra parte ben più soggetto a manipolazioni politiche e ad ogni tipo di sfruttamento, sia umano che materiale.

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Confronto punteggio medio di literacy ottenuto nei Paesi partecipanti all’indagine PIAAC

Dopo vent’anni di quotidiana e capillare azione mediocrizzante del berlusconismo mediatico, questi risultati non giungono del tutto inaspettati, anche se la gravità della loro nitidezza rimane drammatica. Viene da chiedersi piuttosto se la situazione di sfacelo in cui versa la cultura italiana sia il frutto accidentale e imprevisto di politiche sbagliate e miopie decisionali, oppure se sia la tappa finale di un percorso consapevole di graduale de-pauperamento delle facoltà critiche della pubblica opinione. Un percorso che ha attraversato molteplici nodi: il progressivo aumento dei costi dell’istruzione scolastica, inversamente proporzionale alla qualità degli studi offerti; la regressione del principio di istruzione come diritto universale, accessibile ad ogni fascia di reddito, e lo sgretolamento corrispettivo dell’illusione di scalata sociale delle giovani generazioni; la riduzione della televisione a strumento di controllo e di inebetimento delle coscienze, attraverso la censura dei programmi di approfondimento e la riproposizione ossessiva di quiz, talk shows e intrattenimento di infimo livello; la trasformazione dell’informazione in infotainment, con la scomparsa del giornalismo d’inchiesta e la bulimia di contenuti cronachistico-spettacolari, nonché la ridicolizzazione del ruolo sociale degli insegnanti, resi dalle varie riforme burocrati e usurai di crediti e debiti. Una storia che conosciamo.

E mentre le università si sfasciano sotto i colpi di una silenziosa privatizzazione e capitalizzazione dei dipartimenti, gli studi umanistici vengono derisi come inutili, tagliati, accorpati, abbandonati da un numero sempre crescente di studenti. Mai come oggi, infatti, gli studenti di storia, lettere, filosofia, conservazione dei beni culturali sono stati così poco numerosi, disincentivati dall’ideologia imperante che proclama la validità esclusiva di un sapere tecnico, che sia immediatamente finalizzabile, concreto. Come se in Italia, di questi tempi, esistesse ancora un filone di studi abbastanza “utile” da allontanare lo spettro della disoccupazione… In questo senso i dati dell’Ocse sono estremamente interessanti: la peggior prova di noi la diamo proprio nella capacità di lettura e scrittura, il cuore dell’umanesimo. Quello stesso umanesimo il cui fulcro principale è il conferimento di dignità all’uomo attraverso lo sviluppo della sua capacità di ragionare in maniera autonoma, di esercitare liberamente la propria razionalità, di rapportarsi in maniera complessa e globale alla realtà.

Una società di analfabeti, una società che abbandona e deride il sapere umanistico, non è un semplice fenomeno di costume, una tendenza culturale di secondario interesse, ma costituisce al contrario un problema politico di estrema gravità, che scuote dalle fondamenta le basilari condizioni di possibilità della democrazia stessa. Infatti, come può un analfabeta rimanere critico di fronte alla proposta di programmi politici e all’operato di coloro che egli sceglie come propri “rappresentanti”? Come può anche solo comprenderne i contenuti, se si smarrisce di fronte a prove ben più banali? Se la pubblica opinione viene presentata come un elemento centrale all’interno di ogni sistema democratico, l’evidenza della sua riduzione a gregge ignorante, confermata dalle analisi dell’Ocse, pone un serio interrogativo rispetto alla sua effettiva realizzabilità, svelandone in modo brutale l’ipocrisia di fondo, quella che difende la tesi secondo cui la volontà dei cittadini sarebbe dotata degli strumenti per influenzare e determinare realmente l’andamento della politica.

È un problema che esce dalle mura della tradizione istituzionale e scotta anche nel piatto delle sinistre e dei movimenti sociali. Scotta in primo luogo per chi difende urlando la tesi della democrazia diretta. Come evitare che i cittadini, privati negli ultimi 20 anni di qualsivoglia capacità critica, vengano eterodiretti da chi detiene il potere effettivo, ovvero il controllo dei mezzi tecnici di creazione della pubblica opinione? Come impedire alla democrazia diretta di trasformarsi di conseguenza in dittatura di una maggioranza succube e “analfabeta”? E scotta per gli intellettuali che oggi, proiettandosi indebitamente in esse, credono nelle masse come motore di un possibile cambiamento. Qual è il potenziale rivoluzionario effettivo di popoli ignoranti e sapientemente manipolati?

Sono domande con cui è sempre più necessario confrontarsi, qualsiasi sia la parte politica che si difende, perché interessano lo scheletro stesso del sistema cosiddetto democratico di cui ci proclamiamo tanto orgogliosi da volerlo perfino esportare. Con la preliminare consapevolezza che, se la “massa” rimane priva di qualsiasi educazione politica nonché degli strumenti culturali necessari ad acquisirla, l’unica forma possibile di governo è la dittatura. Aldilà dei nomi più o meno zuccherini con cui si tenta di indorarla.

di Klopf

Fonte Ocse http://skills.oecd.org/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf

Immagine imieilibri.it


Lampedusa e la foglia di fico della vergogna

blackbirdpress.org Vergogna! titolavano i giornali all’indomani della strage di Lampedusa che è costata la vita ad un numero ancora imprecisato di migranti. È una vergogna, serpeggiava in uno stanco copione tra le parole di bipartisan ipocrisia dei politicanti di mestiere. Vergogna e orrore, rincarava infine la dose un papa Francesco sempre più pop dal palco di Assisi. E così di prima mattina, sui quotidiani del regime, ciascuno di noi trovava già la chiave di lettura dell’accaduto. Espropriati dai media perfino della capacità di elaborare autonomamente i fatti secondo le categorie che riteniamo più opportune, non abbiamo dovuto far altro che adattarci a quel sentimento preconfezionato per noi. Comodo comodo, stampato lì, a caratteri cubitali. V-E-R-G-O-G-N-A.

Vale la pena allora, nel caleidoscopio di emozioni sventagliate, soffermarsi almeno un momento sulle parole. Quelle parole che diventano marionette cangianti tra le dita dei direttori d’orchestra dell’informazione, fino a confondersi tra loro, ad essere trapiantate in campi semantici differenti, usate nei contesti più curiosi, manipolate per ottenere associazioni, suscitare affetti e determinare comportamenti. Forse una delle sfide più grosse che la contemporaneità, o ciò che verrà domani, deve affrontare è proprio il tentativo di ridare un senso alle parole. Di ricominciare ad adoperarle con cura.

La vergogna è ciò che provano Adamo ed Eva nel momento in cui si accorgono di essere nudi. Non è tanto il fatto di essere nudi a creare all’antica coppia dei problemi, ma il fatto di essere guardati e di scoprirsi nudi dinanzi a quello sguardo. Il sorgere della vergogna è cioè inscindibile dallo sguardo esterno che ci coglie in una determinata condizione e in essa ci disapprova, facendoci vivere in tutta la sua crudezza la sensazione di non corrispondere più alla nostra idea di noi stessi. Per dirla con Sartre, la vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono “caduto” nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono (L’Essere e il Nulla).

C’è una valutazione morale connessa alla vergogna, fondata sul bisogno di proteggere, nei luoghi opportuni, ciò che manifesta il valore inalienabile della persona. La vergogna infatti è sostanzialmente uno stato emotivo, espressione del senso di dignità personale, individuale. E ciò costituisce uno dei motivi per cui essa, oggi è una risposta inadeguata alle tragiche morti di Lampedusa: qui non è di noi che si parla, non sono i nostri valori né la nostra dignità ad essere scossi dalle fondamenta, ma i loro, quelli di centinaia di persone partite per cercare un futuro diverso. È la loro dignità che oggi viene negata, esposta, lacerata. Di cui oggi dobbiamo dare conto. La nostra viene in un secondo momento, di riflesso.

Oltre a protrarre un riferimento esclusivo a se stessi, il sentimento della vergogna dischiude anche un ulteriore rischio, oggi tanto più grave. Come spiegava Otto Fenichel, psicanalista viennese, la vergogna può infatti essere un fattore positivo, che sprona all’auto-trasformazione, se viene riconosciuta ed elaborata dal soggetto, ma qualora venga negata, o rimossa, essa provoca all’opposto lo sviluppo di una sorta di corazza difensiva in cui il soggetto si trincera e che consiste nell’atteggiamento per cui “mi vergogno” significa “non voglio essere visto”, e conseguentemente inizio a chiudere gli occhi e mi rifiuto di guardare. Un comportamento che ricalca l’antica credenza magica, tuttora radicata nei nostri meccanismi psichici, secondo la quale chi non guarda non può essere visto.

Ed è esattamente ciò che dobbiamo evitare: di fronte a questo orrore, nient’affatto imprevedibile o sorprendente, vergognarci per qualche giorno e poi tornare a chiudere gli occhi. L’equivoco di fondo nel trattare la vicenda nei termini della vergogna è insomma quello di farne una questione morale, legata al mondo delle emozioni, all’universo dei valori. Ma qui si tratta in realtà di qualcosa di assolutamente razionale, chiaramente determinabile, connesso piuttosto al mondo del diritto. Qualcosa che non riguarda una colpa etica, un peccato originale in versione post-moderna, ma una precisa responsabilità, politica e sociale. Traslare l’accaduto sul piano morale significa infatti non trovarsi costretti ad affrontare concretamente la realtà, non impegnarsi in quanto istituzioni e legislatori, non dover dare conto delle proprie responsabilità dirette ed effettive, preferendo rifugiarsi nella più comoda condanna verbale, in cui galoppa allegramente l’ipocrisia.

Quella di chi oggi, sempre molto eticamente, si indigna e ieri si è impegnato ad addestrare e sostenere economicamente 5000 poliziotti libici al controllo delle frontiere, nonché a ristrutturarne le prigioni-lager, in cui gli uomini vengono ammassati e torturati, le donne sistematicamente stuprate. Di chi l’altro-ieri (2008) stringeva un trattato di amicizia che legittima ed organizza la pratica mortifera dei respingimenti umani, condannata nel 2011 dalla Corte Europea di Strasburgo. Di chi millanta come unica soluzione un rafforzamento del mostruoso e assai poco trasparente Frontex, o di chi, come il nostro vetusto e onoratissimo presidente della Repubblica, proclama la necessità di creare “presidi adeguati lungo le coste” da cui partono i migranti. Adeguati esclusivamente ad ammazzare migliaia di persone ogni anno.

Rimanere sul piano morale significa inoltre prospettare una sola risposta possibile, che compariva in ogni intervista sui quotidiani di oggi: la solidarietà. Come se l’accoglienza dei profughi fosse una questione di solidarietà umana, di bontà, e non in primo luogo un dovere civico, una necessità politica ed economica, il rispetto giuridico di un diritto. Come se la soluzione al continuo stillicidio di vite nel Mediterraneo fosse dividere con un sorriso colmo di cristiana pietas la nostra pagnotta con i nuovi arrivati, o coprire le loro spalle con una coperta, e non abrogare delle leggi pensate per ridurli in schiavitù o agire nelle ambasciate per garantire loro un lasciapassare legale, evitando che siano costretti ad affidare le loro esistenza ai trafficanti di carne umana.

Oggi non è la solidarietà dei politici ad essere chiamata in causa. È la loro responsabilità, quella che si definisce come la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo determinante (Sabatini Coletti). Perché nell’orrore del sistema-immigrazione non c’è nulla di sconosciuto, nulla di naturale o immutabile, nulla di fossilizzato nella volontà divina. Quei sacchi di plastica assiepati sull’asfalto sono la conseguenza di determinate ed esplicite decisioni politiche, di precise strategie economiche e sociali, elaborate da chi era consapevole degli effetti delle proprie azioni, ma ha volontariamente preferito ignorarli per salvaguardare altri interessi. Una responsabilità che, di fronte al gonfiore di quei cadaveri, né gli abili spostamenti semantici dei media né le copiose e bilaterali lacrime di coccodrillo possono continuare ad occultare.

di Klopf

Immagine blackbirdpress.org


Il rifugiato che c’è in noi

another bouncing ballQuando (di rado) si parla del problema dei rifugiati, si tende a farlo come di un tema marginale, quasi si trattasse di una realtà adagiata in una sorta di limbo giuridico-morale situato ai margini della nostra vita, ai margini degli interessi e delle vicende che scandiscono la nostra esistenza quotidiana. La stessa collocazione fisica dei rifugiati tende a renderli marginali: essi giungono da paesi stranieri, sbarcano sulle coste o penetrano attraverso i pori delle frontiere, per arenarsi poi in status identitari poco definiti, sfuggendo parallelamente tanto alla cittadinanza quanto all’identità nazionale dei paesi d’arrivo. Intrappolati in eterne pastoie burocratiche o “ospitati” in strutture ghettizzanti, i rifugiati vengono così mantenuti in una condizione transitoria, indeterminata, e sottratti ai riflettori della discussione politica e sociale, lasciati ad occupare una nicchia di senso poco esplorata ed in fondo poco interessante, abbandonata nel deposito bagagli dell’attenzione generale.

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Posillipo. L’ape e la farfalla

800px-Napoli5Il Golfo di Napoli ammirato da Posillipo è un panorama la cui bellezza si imprime indelebilmente nella memoria di chi ne ha goduto. Se ne erano accorti già gli antichi Greci, 3000 anni fa, quando scelsero di insediarsi in questo promontorio abitato esclusivamente da rocce e arbusti e lo chiamarono Posillipo, Pausilypon, ovvero pausa dal pericolo, e dal dolore. Allora nemmeno la proverbiale perspicacia greca poteva immaginare che anche di fronte a tale spettacolo avrebbe preso dimora il dolore, nella sua intrinseca capacità di trasformarsi in forme sempre nuove e di insediarsi in ogni anfratto delle società umane.

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La laguna da prua a poppa

232215048-9827156e-aab7-4b21-b83e-12a675ab6528Il 21 Settembre nella città di Venezia un ben misero record è stato battuto. In una sola giornata le grandi navi in transito e stazionamento in laguna erano 11, a cui si sono aggiunte 5 navi da crociera e 2 traghetti sotto le 40mila tonnellate, che in totale fanno 18 navi in un solo giorno, cioè 36 passaggi attraverso il bacino di San Marco dall’alba al tramonto. 772mila tonnellate di stazza lorda, come racconta ai giornalisti Silvio Testa, 20mila passeggeri più 8mila membri del personale di bordo. Equivale alla metà dei cittadini di Venezia, sbarcata nell’arco di poche ore.

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