Posillipo. L’ape e la farfalla

800px-Napoli5Il Golfo di Napoli ammirato da Posillipo è un panorama la cui bellezza si imprime indelebilmente nella memoria di chi ne ha goduto. Se ne erano accorti già gli antichi Greci, 3000 anni fa, quando scelsero di insediarsi in questo promontorio abitato esclusivamente da rocce e arbusti e lo chiamarono Posillipo, Pausilypon, ovvero pausa dal pericolo, e dal dolore. Allora nemmeno la proverbiale perspicacia greca poteva immaginare che anche di fronte a tale spettacolo avrebbe preso dimora il dolore, nella sua intrinseca capacità di trasformarsi in forme sempre nuove e di insediarsi in ogni anfratto delle società umane.

Oggi il turista che si affaccia sul belvedere di Sant’Antonio scatta una fotografia dopo l’altra e respira a pieni polmoni la meraviglia soleggiata della “Bella Italia”, sposi e convitati immortalano la loro felicità prestampata in abiti eleganti e i giovani si scambiano languidi baci. Il loro sguardo scruta l’orizzonte, si perde leggero e sognante in quelle ondulate distanze. Senza accorgersi che, proprio sotto i loro piedi, ha preso corpo un alveare di sofferenza ed emarginazione. Nei resti che la bulimica speculazione edilizia ha abbandonato al suo passaggio, grandi cubi di cemento armato accostati uno all’altro a reggere lo scheletro fantasmatico dell’ennesimo albergo di lusso con vista panoramica, sorge oggi un ghetto di immigrati.

espresso posillipoMaterassi sottratti a topi e intemperie buttati sui cartoni, corde di nylon a reggere i pochi panni stesi ad asciugare, qualche ferraglia arrugginita e le bottiglie di alcool raccattate di sopra, nella terrazza bene, succhiate nei loro fondi residui per provare almeno a dimenticare. C’è una linea netta, orizzontale, tracciata con l’inamovibilità del cemento armato, a separare il bel vedere di sopra dal mal vivere di sotto. Per tornare a “casa” immigrati e clochard devono scavalcare la balaustra della terrazza, calarsi tra edere, erbacce e rifiuti, e ritrovare la loro cella esposta ai venti, in questa baraccopoli con vista a cinque stelle.

È un’immagine che descrive un mondo, che racconta in un solo scatto la contemporaneità del mondo in cui viviamo. C’è l’inasprirsi radicale delle disuguaglianze, l’approfondirsi del solco tra le classi sociali che cambiano nome e fisionomia, ma mantengono come costante il principio della divisione e della subalternità. Uno stare sopra e uno stare sotto tra i quali sembra non esserci alcuna mediazione possibile. Nelle falle di quello che si proclama un capitalismo libero e concorrenziale, esistono in realtà appartenenze sociali che pesano come catene di piombo e precludono ai soggetti qualsiasi effettiva possibilità di avere una vita dignitosa. La condizione di clandestinità ne è un esempio lampante. Coloro che cercano rifugio nelle nostre coste, scappando da paesi in fiamme per colpa spesso dei nostri stessi interventi “umanitari” o da contesti di povertà estrema sui quali si fonda la ricchezza delle nostre nazioni, vengono deliberatamente mantenuti in clandestinità da un sistema legislativo assurdo ed inadempibile. Una condizione che li rende sfruttabili a piacimento e ricattabili a volontà, che fa di loro lo strumento chiave per creare concorrenza sleale tra la manodopera e mantenere basso il costo del lavoro, che permette all’agricoltura e all’industria italiane di continuare a sopravvivere. Quella clandestinità che è per lo stato un finto nemico ed un grande alleato e che oggi conduce queste persone a smettere di lottare e ad arrestare il loro cammino, seppellendosi prima del tempo in quegli squallidi loculi di cemento armato.

C’è il crollo dello stato sociale, l’abbandono di ogni effettiva politica di assistenza e cura verso chi ne ha più bisogno, resa impossibile dal continuo taglio di fondi alle comunità locali. Zone di povertà che crescono e si insediano nel tessuto urbano, dimenticate dalle autorità e lasciate a se stesse nell’indifferenza generale degli abitanti, un po’ perché disprezzate come frattaglie disumane, un po’ perché quello potrebbe essere il futuro, il futuro di tutti, e guardarlo negli occhi fa paura. E infine c’è la finzione del turismo, costruito su quella stessa base di sfruttamento e semi-povertà, ma patinato come la superficie brillantinata di una cartolina.

Basterebbe che un turista si sporgesse un po’ più a fondo da quella balaustra, che guardasse giù oltre che davanti a sè, basterebbe che chiedesse al cameriere in papillon da dove proviene il cuoco dei suoi tagliolini e da quante ore è in cucina, basterebbe che domandasse a chi pulisce la camera del suo albergo quanti euro prende all’ora, basterebbe che chiedesse, quando entra su una crociera lucidata di 300 tonnellate in un ecosistema fragile e complesso come un merletto, quali danni sta provocando alla città che stupefatto ammira. Ma i poveri continuano a stare sotto, come topi nelle loro tane, ed i turisti ad affacciarsi indifferenti alle terrazze, sorseggiando vino bianco. The show must go on.

di Klopf

Immagine Repubblica.it


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