La guerra delle immagini e i grappoli d’ossimori

CMYK base C’è stato un momento preciso in cui l’assuefazione narco-mediatica alle stragi quotidiane di questi due anni di guerra civile in Siria ha ceduto di schianto, facendo irrompere la violenza del conflitto nelle nostre coscienze come una realtà non più trascurabile. In cui il trafiletto è divenuto titolo maiuscolo. Imperativo.

Le immagini dei cadaveri di Goutha, allineati sull’asfalto. Quei candidi involucri, troppo piccoli per essere già gusci di morte. L’annaspare disperato dei bimbi alla ricerca di un ultimo atomo d’ossigeno. Sono immagini la cui atrocità non ha bisogno di ulteriori commenti, la cui stessa trasposizione verbale suona inopportuna, inadeguata. Eppure di quelle immagini si è parlato forse troppo poco: le si è immediatamente trascese verso il loro contenuto e verso l’azione etica a cui esse parevano senza esitazione condurre. Ma considerarle come un’istantanea qualsiasi nella rappresentazione dei fatti, un frammento di realtà tra gli altri che ci sono pervenuti, significa probabilmente peccare d’ingenuità. Nelle guerre contemporanee, in cui la mediatizzazione è parte integrante del conflitto, ogni immagine diviene infatti strumento prezioso, la cui diffusione non è casuale, la cui tempistica non è casuale. La cui efferatezza non è casuale.

Lo stesso giorno della strage il canale Syria Justice, schierato con le forze ribelli, trasmetteva in rete un video di dieci minuti con le riprese del lento stillicidio di Goutha, il cui titolo era A message to the people of the world!!! ed in cui campeggiava la scritta This is what Bashar is doing, a coronare le vedute strazianti di cui i telegiornali ci hanno mostrato alcuni estratti. È una visione che nessun essere umano può sostenere. Impedisce di tenere gli occhi aperti e al contempo prende lo stomaco in una morsa inaggirabile. Suscita in noi un sentimento violento, una reazione d’indignazione viscerale, talmente intensa da imporre una qualche forma di risposta. Coinvolgendo e sconvolgendo la persona nella sua parte pre-riflessiva, nella sua umanità più profonda ed intima, la partecipazione visiva ad un’ingiustizia di tale portata riesce a scalfire anche l’indifferenza più granitica. È un’emozione a cui non ci possiamo sottrarre: siamo costretti ad agire di fronte a quelle immagini, a sapere che la nostra immobilità non è corresponsabile di quello scempio. Ad esigere una punizione.

In questo senso le immagini di Goutha si sono rivelate un’arma di importanza decisiva, dato il moto interventistico che hanno suscitato nel mondo occidentale. È un meccanismo che ricorda per certi versi la dinamica strutturale della pubblicità, in cui si agisce sulle leve inconsce del desiderio tramite l’immagine per indurre la spinta “spontanea” al consumo, con la differenza che qui si fa leva sull’indignazione dell’opinione pubblica estera per muovere all’intervento militare. Il problema di fondo è che si tratta di un moto dell’animo, di un disgusto spontaneo e del tutto legittimo che rischia però, quando non modulato con attenzione e cautela, di tradursi in una risposta irrazionale, in una reazione determinata dall’onda del proprio sdegno e non da una considerazione ponderata e plurivoca della situazione, che ne sappia comprendere la complessità e l’articolazione. Con un rischio fondamentale: nel caso (ad oggi difficilmente verificabile) che le immagini siano state create ad hoc da una delle fazioni in guerra per smuovere gli equilibri delle forze in campo, intervenire significherebbe paradossalmente confermare l’efficacia di una tale formidabile arma visiva. Intervenire, cioè, non equivarrebbe più a punire l’ingiustizia, ma al contrario a confermare l’importanza chiave di tale ingiustizia nell’impietosa scacchiera della guerra, ovvero a farne un mezzo strategico decisivo.

Ma la corsa folle della storia ha già oltrepassato questo momento di analisi, senza mai veramente attraversarlo, ed ora danza il walzer ritmato della guerra, abbandona il regno della logica cavalcando le torsioni indignate della pancia. E così si afferma di voler sconfiggere la guerra con più guerra, la morte con più morte. Forse perché la bomba dronica è più pulita e indolore del gas nervino. Forse perché la morte democratica è meno morte di quella dittatoriale, è più giusta se viene da oltreoceano. Forse perché ci sono immagini meno crude che ce la svelano. Si sfida la legalità delle convenzioni internazionali in nome di una legittimità di cui ci si fa portatori esclusivi, di un’etica di cui ci si ritiene difensori ultimi. Si bombarda, ma in modo limitato, mirato. Si interviene, ma senza voler determinare né avere “alcun interesse” a farlo. Si insegue il puro simbolismo della condanna armata, ma si fugge attentamente il pantano del combattimento diretto. Ci si trincera negli ossimori come in un ultimo, schizofrenico, rifugio: si parla di una guerra umanitaria, di Nazioni Unite, di pace a intermittenza.

Celebrando l’anniversario del discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial Center di Washington, Obama si è rivolto oggi ai ragazzi americani, dicendo loro che “c’è un motivo per il quale così tanti di coloro che marciarono allora e nei giorni a venire erano giovani. Osarono sognare e immaginare qualcosa di meglio. E io sono convinto che quella immaginazione esiste anche in questa generazione.” Sarebbe bello osassero anche oggi sognare e immaginare qualcosa di meglio, qualcosa di diverso da una fittizia giustizia imposta con la guerra. Qualcosa che assomiglia almeno vagamente ad un mondo di pace.

di Klopf

Immagine vociglobali.info

 


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