Le saracinesche abbassate dell’informazione

Abdul Raheem Yassir cartoonUno dei risultati più importanti della manifestazione del 19 Ottobre a Roma è stato l’aver portato chiaramente in superficie l’immensa trama di produzione dell’egemonia politica e culturale che sottende al sistema dell’informazione. Che i media siano abili manipolatori di dati è affermazione ormai datata, ma è utile anche questa volta non limitarsi ad asserirlo genericamente, quanto piuttosto mostrarne la prassi concreta attraverso un esempio specifico. È utile non solamente a chi in cuor suo non ha sospetto alcuno nei confronti dei circuiti mediatici mainstream, ma ugualmente e forse ancor più a coloro che ritengono di possedere una coscienza autonoma, di essere in grado di riconoscere e scansare le trappole di queste sireneiche bocche della verità. A coloro che a Roma avrebbero voluto esserci, che condividono la sensibilità e le tematiche dei movimenti che sfilavano scandendo slogan, ma hanno preferito non partire per non rimanere intrappolati in una giornata che si preannunciava epocale per durezza e generalità degli scontri. A coloro che “Erano anni che non mi capitava di sentire una chiamata alle armi così violenta!” e “Tira troppo una brutta aria!”. Perchè purtroppo anche su di loro l’imponente operazione di intimidazione condotta da quotidiani e televisioni, ripresa e rilanciata dal passaparola, ha finito per produrre gli effetti sperati.

Proviamo a sfogliare Repubblica, colosso dell’informazione italiana, in prima linea nella determinazione delle curvature d’umore della pubblica opinione. Un quotidiano che, per altro, si spaccia come appartenente all’orizzonte culturale del centro-sinistra.

19 Ottobre. “Le parole chiave: sollevazione e assedio“, comincia proprio così l’articolo sull’imminente corteo, a firma di Carmine Saviano. Sollevazione e assedio, due termini che rimandano ad un clima di guerra, a fazioni che si combattono, a spade, ferro e fuoco. Inizio promettente. “Con diversi convitati di pietra: la cosiddetta “galassia antagonista” e una serie pressoché infinita di piccole sigle, dagli anarchici agli ultrà.” Convitati di pietra, come a dire che sono sempre gli stessi, quelli instancabili che non mancano occasione per attaccare briga, così, in maniera centrifuga, giusto perché si annoiano o hanno un gran brutto carattere. De coccio, come si dice a Roma. E poi i cosiddetti “antagonisti”, tra virgolette come ciò che è folkloristico o semplicemente riportato, che è privo di un autentico riconoscimento e al tempo stesso di difficile determinazione. E una serie infinita di piccole sigle, un’accozzaglia confusa, caotica, priva di una qualche connessione e di effettiva consistenza poiché dispersa, disgregata, polifonica. Un pot-pourri della feccia, degli ultimi, dei facinorosi. Sullo sfondo della eterna e nobile Roma, ancora una volta costretta a offrire il suo dolente fianco di antico splendore alle ridicole schermaglie del volgo. Una città deserta, dove le mamme trattengono i figli in casa, le metropolitane zoppicano, le biblioteche spengono le luci e i negozianti tengono chiuse le serrande. Una città i cui abitanti scostano le tendine e trattengono il respiro. Come stesse per passare un tifone.

<Quella di svolgere una manifestazione pacifica sembra essere, nella notte di San Giovanni, una volontà comune, un desiderio che attraversa i ragazzi che assistono ai concerti e gli organizzatori della giornata. Si spera nel meglio. Anche se i segnali arrivati durante tutta la giornata di ieri parlano di rischi seri e di possibilità concrete che la situazione precipiti. Il fermo di cinque cittadini francesi; l’inseguimento, al Pigneto, di un gruppo di “incappucciati” che seguivano da lontano la manifestazione dei sindacati di base; il ritrovamento, in Viale Regina Elena, di un furgone con armi contundenti. E il dispositivo di sicurezza delle forze dell’ordine è imponente: quasi cinquemila unità sul percorso della manifestazione, operazioni di bonifica, controlli e posti di blocco nelle zone di accesso al percorso del Corteo. E gli allarmi dell’antiterrorismo crescono in intensità di ora in ora: l’ultima “misurazione” parla di “rischio 5”. Il G8 di Genova, era classificato “rischio 6,5”>. È un pericolo che cova sotto la cenere, che vola rasoterra. Piccoli segnali che sembrano preludere al peggio. Si può solo sperare. Nessun cenno dubitativo sulla legittimità degli arresti preventivi condotti alle frontiere, sulle politiche di perquisizione indiscriminata e di blocco o ritardo dei pullman indesiderati. E infine, ciliegina sulla torta, lo spettro di Genova, a risvegliare un immaginario nazionale fatto di urli, sangue, pietre, botte, felpe col cappuccio. Un immaginario in cui si sta ben attenti a non includere mai né i tonfa della Diaz o le torture di Bolzaneto né lo sdegno per l’irrisorietà della pena finale inflitta alle forze dell’ordine responsabili delle sevizie. Il fantasma di Genova spaventa sempre a senso unico.

20 Ottobre. “Niente cariche, facciamoli giocare”: quell’ordine dalla sala operativa per vincere la partita, titola a caratteri cubitali Carlo Bonini. L’articolo che racconta la giornata di manifestazione è riassunto in questo, una partita, quasi fossimo dentro un videogioco di guerra e stessimo parlando di strategie di posizione e combattimenti infantili fra soldatini, anziché della disperazione e della rabbia di migliaia di persone. Nel giorno in cui sono le persone a camminare, a diventare per un momento partecipi, attive, attraverso la discesa simbolica in piazza, Repubblica sceglie incredibilmente come prospettiva narrante unica quella delle forze di polizia, soffermandosi sulle strategie di controllo e sulla predisposizione del campo al fine di arginare ogni possibile focolare di scontro. Il seguito dell’articolo è, se possibile, di ancor maggiore cattivo gusto del titolo. “Come un wargame, il pomeriggio di Roma declina, anche nella sua autorappresentazione, un gioco di ruolo in diretta. Con le strade sgombre di auto e cassonetti. Le saracinesche dei negozi tirate giù. Le sale operazioni di Questura e Comando provinciale dei carabinieri attrezzate come avveniristici gabinetti di guerra. Immagini dall’alto nel volo ininterrotto degli elicotteri, immagini da telecamere fisse, immagini da diretta tv, nel cicalio continuo delle comunicazioni radio fra reparti, dirigenti, posti di vigilanza fissi. Per poter alla fine misurare, quando scende il buio, e alle “truppe” arriva il “messaggio di congratulazioni” del ministro dell’Interno, chi vince e chi perde in uno scontro sapientemente annunciato da settimane sui due lati della barricata come un Armageddon.”

Non una parola sui contenuti politici del corteo, sul suo significato sociale, sulla sua fisionomia intrinseca, sulla partecipazione straordinaria degli immigrati, sulle prospettive che esso apre, sulle dinamiche che lo hanno prodotto. In sua vece un climax da spy story sull’organizzazione del dispositivo di sicurezza, che si sofferma compiaciuto sul massiccio dispiegamento di mezzi tecnici e forze umane, sugli elicotteri che sorvolano le strade, sulle telecamere della Digos che non perdono un singolo fotogramma degli eventi né un solo neo dei volti, sui “cavalli di Troia” appostati nei paraggi degli obiettivi sensibili. Come se questo tipo di iper-controllo dovesse tranquillizzarci, rassicurarci sull’efficacia della materna protezione che lo Stato ci riserva, anziché terrorizzarci per la sua tentacolare penetrazione e repressione, ben più inquietante di quanto possa esserlo qualche pietra scagliata contro una vetrina. Un racconto che si chiude in modo coerente con le premesse:

Succede così che a nemmeno un’ora dalla partenza la “sortita” verso Casa Pound, la roccaforte dei “fascisti del terzo millennio”, attrezzati all’uopo con mazze, caschi e bastoni per “difendere” l’edificio che occupano, venga assorbita e spenta da un rapido dispiegamento di cordoni di polizia e carabinieri. E succede anche che, intorno alle 17, quando la manifestazione raggiunge la stazione Termini, quei “200” siano ormai seguiti istante dopo istante dalle telecamere dal basso e dall’alto. Che ne filmano i volti e ne anticipano le mosse. “Perché a questo punto – dice un ufficiale dell’Arma – gli resta un solo obiettivo. Il ministero dell’Economia”. E così sarà. Qui, è l’unico contatto violento del pomeriggio. Per l’ordine di carica, il Questore Della Rocca attende fino a quando non è evidente che l’urto non scatenerà una bolgia sul resto del corteo. “Carichiamo solo per fare arresti”, comunica ai dirigenti in strada. “Ripeto, solo per fare arresti”. Il wargame finisce qui.”

La polizia fa sfoggio della sua destrezza nel non cadere nella trappola della contestazione, nel misurare con cautela e saggezza ogni singola mossa, e di questo viene lodata nei quotidiani del regime. Intrappolati in una sorta di delirio paranoide, si finisce per essere riconoscenti alle forze dell’ordine per aver evitato un pericolo ed una violenza che erano il frutto esclusivo della loro fantasia e scaltro prodotto della produzione simbolica e culturale originata per l’occasione dal potere. E nell’ondeggiare di walzer di questo “wargame”, a fare notizia è semplicemente il fatto che non vi siano stati scontri, la negatività di un evento fantasmatico, anziché la positività di quello reale: la rivendicazione da parte della popolazione civile del proprio diritto a vivere in una casa, ad avere un salario che consenta un minimo di dignità, a difendere il proprio territorio dalle trivelle dissennate della speculazione. Ma tutto ciò passa sullo sfondo. Tutto ciò deve rimanere sullo sfondo, lontano dalla comprensione, dall’attenzione e, soprattutto, dalla partecipazione dei più.

Cala la sera, sulla grande bellezza di Roma, e sui sanpietrini intatti tornano a scivolare le rotelle dei passeggini. Di questa lunga giornata non resta che qualche tenda, chissà dove, forse più in giù, un esercito traballante di bottiglie di birra vuote allineate sui davanzali e il rammarico sussurrato in romanesco, a denti stretti, dei commercianti per aver perso inutilmente una giornata di lavoro. Chissà che sia almeno l’ultima volta, quest’anno, che gli assurdi capricci di una banda di teppisti e scansafatiche costringono il consumismo a calare per un istante spesse palpebre d’acciaio sui suoi occhi luccicanti.

di Klopf

Immagine di Abdul Raheem Yassir, vignettista iraqueno.


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