Monthly Archives: Ottobre 2013

Le saracinesche abbassate dell’informazione

Abdul Raheem Yassir cartoonUno dei risultati più importanti della manifestazione del 19 Ottobre a Roma è stato l’aver portato chiaramente in superficie l’immensa trama di produzione dell’egemonia politica e culturale che sottende al sistema dell’informazione. Che i media siano abili manipolatori di dati è affermazione ormai datata, ma è utile anche questa volta non limitarsi ad asserirlo genericamente, quanto piuttosto mostrarne la prassi concreta attraverso un esempio specifico. È utile non solamente a chi in cuor suo non ha sospetto alcuno nei confronti dei circuiti mediatici mainstream, ma ugualmente e forse ancor più a coloro che ritengono di possedere una coscienza autonoma, di essere in grado di riconoscere e scansare le trappole di queste sireneiche bocche della verità. A coloro che a Roma avrebbero voluto esserci, che condividono la sensibilità e le tematiche dei movimenti che sfilavano scandendo slogan, ma hanno preferito non partire per non rimanere intrappolati in una giornata che si preannunciava epocale per durezza e generalità degli scontri. A coloro che “Erano anni che non mi capitava di sentire una chiamata alle armi così violenta!” e “Tira troppo una brutta aria!”. Perchè purtroppo anche su di loro l’imponente operazione di intimidazione condotta da quotidiani e televisioni, ripresa e rilanciata dal passaparola, ha finito per produrre gli effetti sperati.

Proviamo a sfogliare Repubblica, colosso dell’informazione italiana, in prima linea nella determinazione delle curvature d’umore della pubblica opinione. Un quotidiano che, per altro, si spaccia come appartenente all’orizzonte culturale del centro-sinistra.

19 Ottobre. “Le parole chiave: sollevazione e assedio“, comincia proprio così l’articolo sull’imminente corteo, a firma di Carmine Saviano. Sollevazione e assedio, due termini che rimandano ad un clima di guerra, a fazioni che si combattono, a spade, ferro e fuoco. Inizio promettente. “Con diversi convitati di pietra: la cosiddetta “galassia antagonista” e una serie pressoché infinita di piccole sigle, dagli anarchici agli ultrà.” Convitati di pietra, come a dire che sono sempre gli stessi, quelli instancabili che non mancano occasione per attaccare briga, così, in maniera centrifuga, giusto perché si annoiano o hanno un gran brutto carattere. De coccio, come si dice a Roma. E poi i cosiddetti “antagonisti”, tra virgolette come ciò che è folkloristico o semplicemente riportato, che è privo di un autentico riconoscimento e al tempo stesso di difficile determinazione. E una serie infinita di piccole sigle, un’accozzaglia confusa, caotica, priva di una qualche connessione e di effettiva consistenza poiché dispersa, disgregata, polifonica. Un pot-pourri della feccia, degli ultimi, dei facinorosi. Sullo sfondo della eterna e nobile Roma, ancora una volta costretta a offrire il suo dolente fianco di antico splendore alle ridicole schermaglie del volgo. Una città deserta, dove le mamme trattengono i figli in casa, le metropolitane zoppicano, le biblioteche spengono le luci e i negozianti tengono chiuse le serrande. Una città i cui abitanti scostano le tendine e trattengono il respiro. Come stesse per passare un tifone.

<Quella di svolgere una manifestazione pacifica sembra essere, nella notte di San Giovanni, una volontà comune, un desiderio che attraversa i ragazzi che assistono ai concerti e gli organizzatori della giornata. Si spera nel meglio. Anche se i segnali arrivati durante tutta la giornata di ieri parlano di rischi seri e di possibilità concrete che la situazione precipiti. Il fermo di cinque cittadini francesi; l’inseguimento, al Pigneto, di un gruppo di “incappucciati” che seguivano da lontano la manifestazione dei sindacati di base; il ritrovamento, in Viale Regina Elena, di un furgone con armi contundenti. E il dispositivo di sicurezza delle forze dell’ordine è imponente: quasi cinquemila unità sul percorso della manifestazione, operazioni di bonifica, controlli e posti di blocco nelle zone di accesso al percorso del Corteo. E gli allarmi dell’antiterrorismo crescono in intensità di ora in ora: l’ultima “misurazione” parla di “rischio 5”. Il G8 di Genova, era classificato “rischio 6,5”>. È un pericolo che cova sotto la cenere, che vola rasoterra. Piccoli segnali che sembrano preludere al peggio. Si può solo sperare. Nessun cenno dubitativo sulla legittimità degli arresti preventivi condotti alle frontiere, sulle politiche di perquisizione indiscriminata e di blocco o ritardo dei pullman indesiderati. E infine, ciliegina sulla torta, lo spettro di Genova, a risvegliare un immaginario nazionale fatto di urli, sangue, pietre, botte, felpe col cappuccio. Un immaginario in cui si sta ben attenti a non includere mai né i tonfa della Diaz o le torture di Bolzaneto né lo sdegno per l’irrisorietà della pena finale inflitta alle forze dell’ordine responsabili delle sevizie. Il fantasma di Genova spaventa sempre a senso unico.

20 Ottobre. “Niente cariche, facciamoli giocare”: quell’ordine dalla sala operativa per vincere la partita, titola a caratteri cubitali Carlo Bonini. L’articolo che racconta la giornata di manifestazione è riassunto in questo, una partita, quasi fossimo dentro un videogioco di guerra e stessimo parlando di strategie di posizione e combattimenti infantili fra soldatini, anziché della disperazione e della rabbia di migliaia di persone. Nel giorno in cui sono le persone a camminare, a diventare per un momento partecipi, attive, attraverso la discesa simbolica in piazza, Repubblica sceglie incredibilmente come prospettiva narrante unica quella delle forze di polizia, soffermandosi sulle strategie di controllo e sulla predisposizione del campo al fine di arginare ogni possibile focolare di scontro. Il seguito dell’articolo è, se possibile, di ancor maggiore cattivo gusto del titolo. “Come un wargame, il pomeriggio di Roma declina, anche nella sua autorappresentazione, un gioco di ruolo in diretta. Con le strade sgombre di auto e cassonetti. Le saracinesche dei negozi tirate giù. Le sale operazioni di Questura e Comando provinciale dei carabinieri attrezzate come avveniristici gabinetti di guerra. Immagini dall’alto nel volo ininterrotto degli elicotteri, immagini da telecamere fisse, immagini da diretta tv, nel cicalio continuo delle comunicazioni radio fra reparti, dirigenti, posti di vigilanza fissi. Per poter alla fine misurare, quando scende il buio, e alle “truppe” arriva il “messaggio di congratulazioni” del ministro dell’Interno, chi vince e chi perde in uno scontro sapientemente annunciato da settimane sui due lati della barricata come un Armageddon.”

Non una parola sui contenuti politici del corteo, sul suo significato sociale, sulla sua fisionomia intrinseca, sulla partecipazione straordinaria degli immigrati, sulle prospettive che esso apre, sulle dinamiche che lo hanno prodotto. In sua vece un climax da spy story sull’organizzazione del dispositivo di sicurezza, che si sofferma compiaciuto sul massiccio dispiegamento di mezzi tecnici e forze umane, sugli elicotteri che sorvolano le strade, sulle telecamere della Digos che non perdono un singolo fotogramma degli eventi né un solo neo dei volti, sui “cavalli di Troia” appostati nei paraggi degli obiettivi sensibili. Come se questo tipo di iper-controllo dovesse tranquillizzarci, rassicurarci sull’efficacia della materna protezione che lo Stato ci riserva, anziché terrorizzarci per la sua tentacolare penetrazione e repressione, ben più inquietante di quanto possa esserlo qualche pietra scagliata contro una vetrina. Un racconto che si chiude in modo coerente con le premesse:

Succede così che a nemmeno un’ora dalla partenza la “sortita” verso Casa Pound, la roccaforte dei “fascisti del terzo millennio”, attrezzati all’uopo con mazze, caschi e bastoni per “difendere” l’edificio che occupano, venga assorbita e spenta da un rapido dispiegamento di cordoni di polizia e carabinieri. E succede anche che, intorno alle 17, quando la manifestazione raggiunge la stazione Termini, quei “200” siano ormai seguiti istante dopo istante dalle telecamere dal basso e dall’alto. Che ne filmano i volti e ne anticipano le mosse. “Perché a questo punto – dice un ufficiale dell’Arma – gli resta un solo obiettivo. Il ministero dell’Economia”. E così sarà. Qui, è l’unico contatto violento del pomeriggio. Per l’ordine di carica, il Questore Della Rocca attende fino a quando non è evidente che l’urto non scatenerà una bolgia sul resto del corteo. “Carichiamo solo per fare arresti”, comunica ai dirigenti in strada. “Ripeto, solo per fare arresti”. Il wargame finisce qui.”

La polizia fa sfoggio della sua destrezza nel non cadere nella trappola della contestazione, nel misurare con cautela e saggezza ogni singola mossa, e di questo viene lodata nei quotidiani del regime. Intrappolati in una sorta di delirio paranoide, si finisce per essere riconoscenti alle forze dell’ordine per aver evitato un pericolo ed una violenza che erano il frutto esclusivo della loro fantasia e scaltro prodotto della produzione simbolica e culturale originata per l’occasione dal potere. E nell’ondeggiare di walzer di questo “wargame”, a fare notizia è semplicemente il fatto che non vi siano stati scontri, la negatività di un evento fantasmatico, anziché la positività di quello reale: la rivendicazione da parte della popolazione civile del proprio diritto a vivere in una casa, ad avere un salario che consenta un minimo di dignità, a difendere il proprio territorio dalle trivelle dissennate della speculazione. Ma tutto ciò passa sullo sfondo. Tutto ciò deve rimanere sullo sfondo, lontano dalla comprensione, dall’attenzione e, soprattutto, dalla partecipazione dei più.

Cala la sera, sulla grande bellezza di Roma, e sui sanpietrini intatti tornano a scivolare le rotelle dei passeggini. Di questa lunga giornata non resta che qualche tenda, chissà dove, forse più in giù, un esercito traballante di bottiglie di birra vuote allineate sui davanzali e il rammarico sussurrato in romanesco, a denti stretti, dei commercianti per aver perso inutilmente una giornata di lavoro. Chissà che sia almeno l’ultima volta, quest’anno, che gli assurdi capricci di una banda di teppisti e scansafatiche costringono il consumismo a calare per un istante spesse palpebre d’acciaio sui suoi occhi luccicanti.

di Klopf

Immagine di Abdul Raheem Yassir, vignettista iraqueno.


Cronache da Dissenzia

40b5b5295ef1de0f509cd965c10fc45a_XLDissenzia è una città piccola piccola. Le sue fondamenta sono fragili, poggiano su un terreno un poco instabile. Dissenzia è invero una città particolare. Non teme le frane di montagna, né il vibrare furioso della terra, ma vive in un limbo fatto d’onde e salsedine, un limbo che ne é croce e delizia, magica bellezza e sussurrante minaccia. È così bella, Dissenzia…scrigno di silenzi e di semplici riti, conchiglia di un mondo d’altri tempi, e ad ammirarla vengono in molti: spose dagli occhi a mandorla su piedini piccoli piccoli, artisti avvolti in mantelli bohémien, speculatori d’ogni sorta. Chi davanti ai suoi tramonti acidi si innamora, chi nell’aria ferma inizia a detestarsi.

Vengono in molti, in molti, sempre di più. Così tanti che a Dissenzia succede una cosa strana. Come una bottiglia dimenticata sotto il rubinetto, Dissenzia si riempie di nuove persone, e quelle che prima vivevano lì tracimano fuori dai suoi bordi, sotto la pressione del flusso incessante. Sono tristi, le profughe gocce di Dissenzia. Dover dire addio a quell’ampolla dalle morbide forme…Non vorrebbero andarsene, ma…e i ma scorrono sulla punta delle dita in un elenco che si fa così lungo da trasformare le alternative in utopie.

Nel doppiofondo di Dissenzia, come nella fodera di un vecchio cappello, abita da qualche tempo uno stregone malvagio. Le sue armi non tuonano, non roboano, non esplodono, non pesano e non richiedono alte tecnologie per essere trasportate. Sono sottili, leggere, mobili. Passano inosservate di tasca in tasca. I poteri del vecchio sciamano non conoscono limiti: mentre il suo esercito di grandi draghi sputa-diesel circonda la città, egli trasforma con il tocco di Mida ogni casa che incontra in lussuosa reggia, ogni tozzo di pane in lingotto vitreo, ogni ufficio in agenzia. Molti sono gli appelli al re di Dissenzia, che fermi la fattura, che esorcizzi la paura! ma, da bravo re, egli non pensa che al luccichìo del proprio castello e alla sazietà dei suoi molti vassalli. C’è perfino chi mormora che lui e lo stregone si conoscano, siano stati un tempo compagni di simposi, ma del resto a Dissenzia, sull’onda del vino, si mormora molto…

A Dissenzia succede però ancora qualcosa, qualcosa di strano. È una città piccola piccola, con un nemico grande grande, eppure a Dissenzia qualcuno vuol bene davvero e decide di provare a fermare il malefico stregone, in barba all’impavido re. Sono pochi pochi. Pochi davvero. Sono pochi quelli su cui le armi del vecchio fattucchiero non hanno ancora agito, pochi quelli che non esauriscono il proprio entusiasmo nell’ebbrezza delle feste, pochi quelli che dopo tante ore di pala e piccone non si accasciano sfibrati e vuoti davanti alle ombre di una magica lanterna. Si riconoscono, tra pochi, quando si incrociano. Alcuni vestono un po’ strano, rinunciano a cipria e parrucca, altri hanno semplicemente un’aria più stanca ed una luce diversa nello sguardo.

Si formano dei capannelli. I pochi discutono, progettano, rivendicano, sognano. Le parole diventano energie, le energie azioni. Ma più le azioni crescono, più i pochi, inspiegabilmente, iniziano a litigare sul da farsi e sul come farsi. Volano accuse, parole grosse, qualche ceffone, insulti di nuovo conio. Arraffone! Trotzkista! Anarchico! Licantropo! Stalinista! Gandhiano! Caimano! Verticista! Orizzontale! Barbablu! E così quei pochi si dividono, con l’intenzione di non incontrarsi più, ed ognuno di loro, da quel giorno, si dà un nome e cerca da solo le armi più opportune per combattere il vecchio stregone, accusando gli altri di esserne gli occulti apprendisti. Hanno gli stessi slogan. Le loro battaglie sono le stesse battaglie. Lo stesso nemico. Ma i pochi si siedono intorno a fuochi diversi, non si spartiscono le scarse vivande e diventano pochissimi gruppi di pochissimi. Ogni tanto uno di loro esce a fiutare l’aria e, come un cagnolino impaziente, marca con i propri odori il terreno. Ringhiano quei pochi, quando il piccolo terreno, nella città piccola piccola, li fa incontrare. E si mordono la coda.

Ghigna soddisfatto invece il vecchio stregone. Dissenzia è una preda facile facile. Aveva temuto, per un istante, di avere forse un tantino esagerato, di aver preteso troppo, troppo velocemente…in fondo anche i peggiori sortilegi vanno fatti con gradualità, per non spaventare, per abituare le vittime. Insomma, è l’abc della stregoneria! Invece questa volta tutto è andato per il meglio: i pochi che potevano minacciarne l’operato non smettono di segmentarsi convulsamente come trucioli in una segheria impazzita e le giovani donne si fanno belle e sventolano fazzolettini di lino bianco in saluto ai suoi grandi draghi. Quasi troppo facile…In effetti comincia ad annoiarsi un poco, il vecchio stregone. Affondare il coltello nel burro non dà certo lo stesso gusto di addentare una braciola al sangue. Sospira, rammentandosi che ormai è diventato vecchio. È vero che si è sempre pensato eterno, ma…quel fastidioso schricchiolio nelle ossa, quando si piega, comincia un po’ a preoccuparlo. Per fortuna che nessuno dei suoi nemici, intento com’era a guardarsi allo specchio, se n’è ancora accorto!

di Klopf

Immagine ilcarrettinodelleidee.com


Gli Italiani e l’ABC della democrazia

cultural-decadence-smallSono usciti due giorni fa i risultati dell’analisi condotta dall’Ocse sulle competenze alfabetiche, matematiche ed informatiche dei cittadini adulti di 24 paesi, compresi nella fascia d’età tra i 16 e i 65 anni. Nonostante l’effettiva significanza di questo tipo di rilevazioni sia difficile da valutare oggettivamente, data l’arbitrarietà dei criteri, dei parametri e dei metodi in base ai quali esse vengono condotte, l’immagine che se ne ricava non è affatto confortante. L’Italia ne esce infatti con una sonora bocciatura: all’ultimo posto in assoluto per competenze di lettura, al penultimo per la capacità di far di conto e di utilizzare in modo efficace le tecnologie informatiche.

Un quadro talmente grave da rivelare la presenza nel nostro paese di un radicato, quanto drammatico “analfabetismo funzionale”. Siamo cioè tecnicamente in grado di leggere e scrivere, ma non siamo praticamente capaci di servircene nella vita quotidiana. Non sappiamo compilare in modo corretto una domanda d’impiego, non capiamo del tutto le clausole di un contratto che pur firmiamo, ci smarriamo di fronte a tutto ciò che è scritto, che si tratti delle geroglifiche istruzioni di montaggio di una scrivania Ikea, di un quotidiano dimenticato in un bar, di decifrare i cartelli stradali, di cercare una parola che non conosciamo in un dizionario piuttosto che di azzeccare l’orario dell’autobus nella tabella apposta alle fermate.

Il nostro punto debole? In assoluto la literacy proficiency, ovvero la capacità di “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Il 28% degli italiani, infatti, è in possesso del livello più basso di competenze nella lettura, contro il 15% degli altri cittadini Ocse e il 12% dei norvegesi. Significa che quasi un italiano su tre, se legge un libro o qualsiasi altro testo scritto, riesce a carpirne esclusivamente le informazioni più semplici, senza poterne afferrare davvero il senso globale. E in un mondo in cui la capacità di utilizzare gli strumenti informatici come fonte di conoscenza e di operatività è fondamentale – dalle previsioni del meteo, alle destinazioni dei voli aerei alla ricetta del risotto alla milanese – gli italiani vanno a fondo: non solo non conoscono le risposte ai quesiti relativi alla dimensione informatica, ma non riescono nemmeno ad utilizzare il computer per rispondere ad essi durante il test! Se non fosse la realtà di una popolazione, sarebbe una barzelletta divertente…

L’amara conclusione è che il 70% degli italiani risulta dotato di competenze ampiamente sotto la soglia di quel “minimo indispensabile per vivere e lavorare nel XXI Secolo”. Il tasso di analfabetismo funzionale di un paese è inoltre uno degli indicatori comunemente accettati del suo livello di povertà: chi è analfabeta fatica a trovare anche un lavoro di minima qualificazione o, per dirla con le curiose parole di Giovannini, è “poco occupabile”, ma d’altra parte ben più soggetto a manipolazioni politiche e ad ogni tipo di sfruttamento, sia umano che materiale.

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Confronto punteggio medio di literacy ottenuto nei Paesi partecipanti all’indagine PIAAC

Dopo vent’anni di quotidiana e capillare azione mediocrizzante del berlusconismo mediatico, questi risultati non giungono del tutto inaspettati, anche se la gravità della loro nitidezza rimane drammatica. Viene da chiedersi piuttosto se la situazione di sfacelo in cui versa la cultura italiana sia il frutto accidentale e imprevisto di politiche sbagliate e miopie decisionali, oppure se sia la tappa finale di un percorso consapevole di graduale de-pauperamento delle facoltà critiche della pubblica opinione. Un percorso che ha attraversato molteplici nodi: il progressivo aumento dei costi dell’istruzione scolastica, inversamente proporzionale alla qualità degli studi offerti; la regressione del principio di istruzione come diritto universale, accessibile ad ogni fascia di reddito, e lo sgretolamento corrispettivo dell’illusione di scalata sociale delle giovani generazioni; la riduzione della televisione a strumento di controllo e di inebetimento delle coscienze, attraverso la censura dei programmi di approfondimento e la riproposizione ossessiva di quiz, talk shows e intrattenimento di infimo livello; la trasformazione dell’informazione in infotainment, con la scomparsa del giornalismo d’inchiesta e la bulimia di contenuti cronachistico-spettacolari, nonché la ridicolizzazione del ruolo sociale degli insegnanti, resi dalle varie riforme burocrati e usurai di crediti e debiti. Una storia che conosciamo.

E mentre le università si sfasciano sotto i colpi di una silenziosa privatizzazione e capitalizzazione dei dipartimenti, gli studi umanistici vengono derisi come inutili, tagliati, accorpati, abbandonati da un numero sempre crescente di studenti. Mai come oggi, infatti, gli studenti di storia, lettere, filosofia, conservazione dei beni culturali sono stati così poco numerosi, disincentivati dall’ideologia imperante che proclama la validità esclusiva di un sapere tecnico, che sia immediatamente finalizzabile, concreto. Come se in Italia, di questi tempi, esistesse ancora un filone di studi abbastanza “utile” da allontanare lo spettro della disoccupazione… In questo senso i dati dell’Ocse sono estremamente interessanti: la peggior prova di noi la diamo proprio nella capacità di lettura e scrittura, il cuore dell’umanesimo. Quello stesso umanesimo il cui fulcro principale è il conferimento di dignità all’uomo attraverso lo sviluppo della sua capacità di ragionare in maniera autonoma, di esercitare liberamente la propria razionalità, di rapportarsi in maniera complessa e globale alla realtà.

Una società di analfabeti, una società che abbandona e deride il sapere umanistico, non è un semplice fenomeno di costume, una tendenza culturale di secondario interesse, ma costituisce al contrario un problema politico di estrema gravità, che scuote dalle fondamenta le basilari condizioni di possibilità della democrazia stessa. Infatti, come può un analfabeta rimanere critico di fronte alla proposta di programmi politici e all’operato di coloro che egli sceglie come propri “rappresentanti”? Come può anche solo comprenderne i contenuti, se si smarrisce di fronte a prove ben più banali? Se la pubblica opinione viene presentata come un elemento centrale all’interno di ogni sistema democratico, l’evidenza della sua riduzione a gregge ignorante, confermata dalle analisi dell’Ocse, pone un serio interrogativo rispetto alla sua effettiva realizzabilità, svelandone in modo brutale l’ipocrisia di fondo, quella che difende la tesi secondo cui la volontà dei cittadini sarebbe dotata degli strumenti per influenzare e determinare realmente l’andamento della politica.

È un problema che esce dalle mura della tradizione istituzionale e scotta anche nel piatto delle sinistre e dei movimenti sociali. Scotta in primo luogo per chi difende urlando la tesi della democrazia diretta. Come evitare che i cittadini, privati negli ultimi 20 anni di qualsivoglia capacità critica, vengano eterodiretti da chi detiene il potere effettivo, ovvero il controllo dei mezzi tecnici di creazione della pubblica opinione? Come impedire alla democrazia diretta di trasformarsi di conseguenza in dittatura di una maggioranza succube e “analfabeta”? E scotta per gli intellettuali che oggi, proiettandosi indebitamente in esse, credono nelle masse come motore di un possibile cambiamento. Qual è il potenziale rivoluzionario effettivo di popoli ignoranti e sapientemente manipolati?

Sono domande con cui è sempre più necessario confrontarsi, qualsiasi sia la parte politica che si difende, perché interessano lo scheletro stesso del sistema cosiddetto democratico di cui ci proclamiamo tanto orgogliosi da volerlo perfino esportare. Con la preliminare consapevolezza che, se la “massa” rimane priva di qualsiasi educazione politica nonché degli strumenti culturali necessari ad acquisirla, l’unica forma possibile di governo è la dittatura. Aldilà dei nomi più o meno zuccherini con cui si tenta di indorarla.

di Klopf

Fonte Ocse http://skills.oecd.org/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf

Immagine imieilibri.it


Lampedusa e la foglia di fico della vergogna

blackbirdpress.org Vergogna! titolavano i giornali all’indomani della strage di Lampedusa che è costata la vita ad un numero ancora imprecisato di migranti. È una vergogna, serpeggiava in uno stanco copione tra le parole di bipartisan ipocrisia dei politicanti di mestiere. Vergogna e orrore, rincarava infine la dose un papa Francesco sempre più pop dal palco di Assisi. E così di prima mattina, sui quotidiani del regime, ciascuno di noi trovava già la chiave di lettura dell’accaduto. Espropriati dai media perfino della capacità di elaborare autonomamente i fatti secondo le categorie che riteniamo più opportune, non abbiamo dovuto far altro che adattarci a quel sentimento preconfezionato per noi. Comodo comodo, stampato lì, a caratteri cubitali. V-E-R-G-O-G-N-A.

Vale la pena allora, nel caleidoscopio di emozioni sventagliate, soffermarsi almeno un momento sulle parole. Quelle parole che diventano marionette cangianti tra le dita dei direttori d’orchestra dell’informazione, fino a confondersi tra loro, ad essere trapiantate in campi semantici differenti, usate nei contesti più curiosi, manipolate per ottenere associazioni, suscitare affetti e determinare comportamenti. Forse una delle sfide più grosse che la contemporaneità, o ciò che verrà domani, deve affrontare è proprio il tentativo di ridare un senso alle parole. Di ricominciare ad adoperarle con cura.

La vergogna è ciò che provano Adamo ed Eva nel momento in cui si accorgono di essere nudi. Non è tanto il fatto di essere nudi a creare all’antica coppia dei problemi, ma il fatto di essere guardati e di scoprirsi nudi dinanzi a quello sguardo. Il sorgere della vergogna è cioè inscindibile dallo sguardo esterno che ci coglie in una determinata condizione e in essa ci disapprova, facendoci vivere in tutta la sua crudezza la sensazione di non corrispondere più alla nostra idea di noi stessi. Per dirla con Sartre, la vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono “caduto” nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono (L’Essere e il Nulla).

C’è una valutazione morale connessa alla vergogna, fondata sul bisogno di proteggere, nei luoghi opportuni, ciò che manifesta il valore inalienabile della persona. La vergogna infatti è sostanzialmente uno stato emotivo, espressione del senso di dignità personale, individuale. E ciò costituisce uno dei motivi per cui essa, oggi è una risposta inadeguata alle tragiche morti di Lampedusa: qui non è di noi che si parla, non sono i nostri valori né la nostra dignità ad essere scossi dalle fondamenta, ma i loro, quelli di centinaia di persone partite per cercare un futuro diverso. È la loro dignità che oggi viene negata, esposta, lacerata. Di cui oggi dobbiamo dare conto. La nostra viene in un secondo momento, di riflesso.

Oltre a protrarre un riferimento esclusivo a se stessi, il sentimento della vergogna dischiude anche un ulteriore rischio, oggi tanto più grave. Come spiegava Otto Fenichel, psicanalista viennese, la vergogna può infatti essere un fattore positivo, che sprona all’auto-trasformazione, se viene riconosciuta ed elaborata dal soggetto, ma qualora venga negata, o rimossa, essa provoca all’opposto lo sviluppo di una sorta di corazza difensiva in cui il soggetto si trincera e che consiste nell’atteggiamento per cui “mi vergogno” significa “non voglio essere visto”, e conseguentemente inizio a chiudere gli occhi e mi rifiuto di guardare. Un comportamento che ricalca l’antica credenza magica, tuttora radicata nei nostri meccanismi psichici, secondo la quale chi non guarda non può essere visto.

Ed è esattamente ciò che dobbiamo evitare: di fronte a questo orrore, nient’affatto imprevedibile o sorprendente, vergognarci per qualche giorno e poi tornare a chiudere gli occhi. L’equivoco di fondo nel trattare la vicenda nei termini della vergogna è insomma quello di farne una questione morale, legata al mondo delle emozioni, all’universo dei valori. Ma qui si tratta in realtà di qualcosa di assolutamente razionale, chiaramente determinabile, connesso piuttosto al mondo del diritto. Qualcosa che non riguarda una colpa etica, un peccato originale in versione post-moderna, ma una precisa responsabilità, politica e sociale. Traslare l’accaduto sul piano morale significa infatti non trovarsi costretti ad affrontare concretamente la realtà, non impegnarsi in quanto istituzioni e legislatori, non dover dare conto delle proprie responsabilità dirette ed effettive, preferendo rifugiarsi nella più comoda condanna verbale, in cui galoppa allegramente l’ipocrisia.

Quella di chi oggi, sempre molto eticamente, si indigna e ieri si è impegnato ad addestrare e sostenere economicamente 5000 poliziotti libici al controllo delle frontiere, nonché a ristrutturarne le prigioni-lager, in cui gli uomini vengono ammassati e torturati, le donne sistematicamente stuprate. Di chi l’altro-ieri (2008) stringeva un trattato di amicizia che legittima ed organizza la pratica mortifera dei respingimenti umani, condannata nel 2011 dalla Corte Europea di Strasburgo. Di chi millanta come unica soluzione un rafforzamento del mostruoso e assai poco trasparente Frontex, o di chi, come il nostro vetusto e onoratissimo presidente della Repubblica, proclama la necessità di creare “presidi adeguati lungo le coste” da cui partono i migranti. Adeguati esclusivamente ad ammazzare migliaia di persone ogni anno.

Rimanere sul piano morale significa inoltre prospettare una sola risposta possibile, che compariva in ogni intervista sui quotidiani di oggi: la solidarietà. Come se l’accoglienza dei profughi fosse una questione di solidarietà umana, di bontà, e non in primo luogo un dovere civico, una necessità politica ed economica, il rispetto giuridico di un diritto. Come se la soluzione al continuo stillicidio di vite nel Mediterraneo fosse dividere con un sorriso colmo di cristiana pietas la nostra pagnotta con i nuovi arrivati, o coprire le loro spalle con una coperta, e non abrogare delle leggi pensate per ridurli in schiavitù o agire nelle ambasciate per garantire loro un lasciapassare legale, evitando che siano costretti ad affidare le loro esistenza ai trafficanti di carne umana.

Oggi non è la solidarietà dei politici ad essere chiamata in causa. È la loro responsabilità, quella che si definisce come la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo determinante (Sabatini Coletti). Perché nell’orrore del sistema-immigrazione non c’è nulla di sconosciuto, nulla di naturale o immutabile, nulla di fossilizzato nella volontà divina. Quei sacchi di plastica assiepati sull’asfalto sono la conseguenza di determinate ed esplicite decisioni politiche, di precise strategie economiche e sociali, elaborate da chi era consapevole degli effetti delle proprie azioni, ma ha volontariamente preferito ignorarli per salvaguardare altri interessi. Una responsabilità che, di fronte al gonfiore di quei cadaveri, né gli abili spostamenti semantici dei media né le copiose e bilaterali lacrime di coccodrillo possono continuare ad occultare.

di Klopf

Immagine blackbirdpress.org


Il rifugiato che c’è in noi

another bouncing ballQuando (di rado) si parla del problema dei rifugiati, si tende a farlo come di un tema marginale, quasi si trattasse di una realtà adagiata in una sorta di limbo giuridico-morale situato ai margini della nostra vita, ai margini degli interessi e delle vicende che scandiscono la nostra esistenza quotidiana. La stessa collocazione fisica dei rifugiati tende a renderli marginali: essi giungono da paesi stranieri, sbarcano sulle coste o penetrano attraverso i pori delle frontiere, per arenarsi poi in status identitari poco definiti, sfuggendo parallelamente tanto alla cittadinanza quanto all’identità nazionale dei paesi d’arrivo. Intrappolati in eterne pastoie burocratiche o “ospitati” in strutture ghettizzanti, i rifugiati vengono così mantenuti in una condizione transitoria, indeterminata, e sottratti ai riflettori della discussione politica e sociale, lasciati ad occupare una nicchia di senso poco esplorata ed in fondo poco interessante, abbandonata nel deposito bagagli dell’attenzione generale.

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