Quando (di rado) si parla del problema dei rifugiati, si tende a farlo come di un tema marginale, quasi si trattasse di una realtà adagiata in una sorta di limbo giuridico-morale situato ai margini della nostra vita, ai margini degli interessi e delle vicende che scandiscono la nostra esistenza quotidiana. La stessa collocazione fisica dei rifugiati tende a renderli marginali: essi giungono da paesi stranieri, sbarcano sulle coste o penetrano attraverso i pori delle frontiere, per arenarsi poi in status identitari poco definiti, sfuggendo parallelamente tanto alla cittadinanza quanto all’identità nazionale dei paesi d’arrivo. Intrappolati in eterne pastoie burocratiche o “ospitati” in strutture ghettizzanti, i rifugiati vengono così mantenuti in una condizione transitoria, indeterminata, e sottratti ai riflettori della discussione politica e sociale, lasciati ad occupare una nicchia di senso poco esplorata ed in fondo poco interessante, abbandonata nel deposito bagagli dell’attenzione generale.
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L’apartheid alla svizzera
Le autorità svizzere hanno emanato un provvedimento restrittivo con cui vietano ai richiedenti asilo di frequentare luoghi pubblici quali cortili scolastici, piscine, biblioteche, parchi giochi o chiese. Una lista di exclusion zones che comprende ben 32 tipologie locali, in quella che pare essere l’ennesima forma di discriminazione contro gli immigrati nel continente “civilizzato”.