Il rifugiato che c’è in noi

another bouncing ballQuando (di rado) si parla del problema dei rifugiati, si tende a farlo come di un tema marginale, quasi si trattasse di una realtà adagiata in una sorta di limbo giuridico-morale situato ai margini della nostra vita, ai margini degli interessi e delle vicende che scandiscono la nostra esistenza quotidiana. La stessa collocazione fisica dei rifugiati tende a renderli marginali: essi giungono da paesi stranieri, sbarcano sulle coste o penetrano attraverso i pori delle frontiere, per arenarsi poi in status identitari poco definiti, sfuggendo parallelamente tanto alla cittadinanza quanto all’identità nazionale dei paesi d’arrivo. Intrappolati in eterne pastoie burocratiche o “ospitati” in strutture ghettizzanti, i rifugiati vengono così mantenuti in una condizione transitoria, indeterminata, e sottratti ai riflettori della discussione politica e sociale, lasciati ad occupare una nicchia di senso poco esplorata ed in fondo poco interessante, abbandonata nel deposito bagagli dell’attenzione generale.

Lungi dallo svolgere un ruolo meramente liminale, il rifugiato rappresenta invece una figura chiave del nostro tempo. Scrive Giorgio Agamben: il rifugiato è, forse, la sola pensabile figura del popolo del nostro tempo e la sola categoria nella quale ci sia oggi consentito intravedere le forme e i limiti di una comunità politica a venire. (Mezzi senza fine. Note sulla politica.) Sviluppatosi come fenomeno di massa a partire dalla fine della prima guerra mondiale, in seguito alla caduta degli imperi russo, austroungarico e ottomano, e al conseguente sconvolgimento degli assetti demografici e territoriali europei, il rifugiato è infatti in grado di rivelare, nella sua stessa essenza, l’ambiguità e la parzialità celate nel concetto di Stato-nazione, segnando un passo sostanziale verso l’emancipazione definitiva dalle nozioni ingenue di popolo e di cittadino. Nozioni che nella nostra epoca sono vittime di una crisi profonda, dovuta in primo luogo ai processi di globalizzazione, e chiamano quindi ad un loro ripensamento radicale, tanto semantico quanto effettuale.

Lo Stato-nazione, come spiega Agamben, ha questo di particolare: il fatto di fare della nascita, intesa come nuda vita umana, il fondamento ultimo della propria sovranità, incarnandola nella figura del cittadino. Si tratta di un processo che contiene una implicita finzione, ovvero che la nascita diventi immediatamente nazione, in modo che non possa esservi alcuno scarto fra i due momenti. I diritti sono, cioè, attribuiti all’uomo, solo nella misura in  cui egli è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino. Ed è proprio questa  finzione originaria che il rifugiato interviene a disvelare in tutta la sua paradossalità, il che ne spiega l’apparenza di elemento inquietante, sfuggente, all’interno del sistema stesso. Con la sua semplice presenza, infatti, il rifugiato spezza l’identità forzosa tra uomo e cittadino, tra natività e nazionalità, mostrando come ad essere tutelato e soggetto di diritto nello Stato-nazione non sia in realtà affatto l’uomo in sé, che come tale non è nemmeno contemplato (da cui la significanza parziale dei cosiddetti diritti umani), ma solamente il cittadino. Un cerone che cola nel momento in cui, a fronte dell’aumento costante dell’immigrazione “illegale”, i vari stati industrializzati si trovano oggi a dover gestire una massa stabilmente residente di non-cittadini, che non possono né vogliono essere né naturalizzati né rimpatriati. Un fenomeno che finisce per scardinare e svuotare di senso in maniera fondamentale la sacra trinità Stato-nazione-territorio.

Non si tratta di una mera questione linguistica, né di un puro divertissment filosofico, ma di un problema dotato di implicazioni enormi, e forse a prima vista insospettabili, per milioni di persone nel mondo. Infatti, nel momento in cui l’umanità si lega a doppio filo alla cittadinanza, colui che si trova all’interno dei confini di una nazione senza esserne cittadino a pieno titolo finisce per non riuscire a trovare posto all’interno di alcun possibile diritto, per essere estromesso dalle categorie del giudizio e ritrovarsi spoglio nel proprio esporsi come nuda vita e nell’improvviso divenire-inumano che lo accompagna. Il rifugiato è costretto così a permanere in una condizione di sostanziale insignificanza, di anonimato, fino a trasfomarsi nell’elemento sacrificale e sacrificabile per eccellenza. Colui che può essere eliminato senza remore, senza condanne; colui su cui si può sparare per noia o per gioco, colui che può essere insultato nei modi più umilianti, colui che si può dissanguare come mero strumento sostituibile, colui che, senza saper nuotare, può essere spinto a gettarsi in mare a colpi di frusta.

Si potrebbe pensare che si tratti di una condizione che riguarda una minoranza ristretta, facilmente tracciabile, della popolazione, qualcosa che ha a che fare con le speciosità del diritto dell’immigrazione e in ultima istanza non riguarda noi, cittadini a tutti gli effetti di uno Stato-nazione, saldi detentori del privilegio di un riconoscimento aprioristico di umanità. Ma il modo in cui nella contemporaneità viviamo la nostra condizione di cittadinanza ci sta in realtà rendendo sempre più simili a dei rifugiati in terra patria. Attraverso un abbandono sempre crescente della partecipazione politica, infatti, i cittadini delle nazioni industrializzate tendono massicciamente a disertare la propria appartenenza allo stato, trasformandosi a loro volta in residenti stabili non-cittadini.

In questo senso, come ha compreso Tiqqun nella Teoria del Bloom, si può affermare che non è sacrificabile ed insignificante solamente chi non possiede una cittadinanza, ma anche chi, sul suolo natìo, è privo di comunità. “Non essere nulla, situarsi al di fuori di qualunque forma di riconoscimento o presentarsi come pura individualità non-politica basta infatti a fare di qualunque uomo un essere la cui scomparsa non è degna di nota, avviene nella più totale indifferenza, in ultima istanza non costituisce reato.” Sulla stessa linea di pensiero, Hannah Arendt affermava:

Essere ridotti a un esemplare di una specie animale chiamata Uomo: ecco cosa succede a chi ha perso ogni qualità politica distinta ed è diventato un essere umano e niente altro. […] La perdita dei diritti umani sopraggiunge non appena una persona diventa un essere umano generico, senza professione, senza cittadinanza, senza opinione, senza un’attività con cui identificarsi e specificarsi, e appare come genericamente differente, non rappresentando altro che la propria individualità assolutamente unica, spogliato di ogni significato perché privato dell’espressione e dell’azione in un mondo comune.  (Le origini del totalitarismo)

Ed è proprio in questo limbo di umanità che oggi tendiamo ad accovacciarci, rinunciando in misura sempre crescente alla dimensione politica, intesa in senso più profondo e antecedente rispetto alle sue forme storiche determinate, in quanto elemento primario la cui pregnanza portò nell’antichità a definire l’uomo come zoon politikón, animale politico. Quindi, nonostante il fatto che la nostra situazione legale sia ancora tutelata e riconosciuta, la nostra situazione reale finisce per renderci a nostra volta rifugiati accanto ai rifugiati, apolidi tra i disorientati, in quello spaesamento onnivoro che nell’odierna società dello Spettacolo pare renderci eternamente esuli anche tra le pareti di casa.

di Klopf

Immagine: Guenther Brus, “Painted over. Smudged. Erased”


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