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Quelle labbra cucite sull’istituzione carceraria

archivi.articolo21.org Non sono facili da dimenticare, le bocche cucite dei migranti rinchiusi nel Cie di Roma. Un fendente lanciato nell’immaginario collettivo proprio nel momento in cui le feste natalizie sono solite saturarlo con la loro caramellosa leziosità. E mentre le nostre labbra sono lì, a spalancarsi, un po’ gaudenti un po’ nauseate, di fronte alla consueta sovrabbondanza di cibi e leccornie, le loro si serrano in un sinistro silenzio, i due lembi congiunti da un filo sottile. In sè l’immagine è meno truce di quanto la penseremmo, di quanto, forse, la vorremmo per poterci indignare con adeguato vigore: non c’è sangue, né piaghe o bubboni, né tagli o ferite purulente, contorsioni o dolore evidente. Due piccoli fori e il filo strappato a un maglione, a una felpa. Inspiegabilmente pulita, quella bocca che, muta, ci interroga. Un gesto che, pur non rinunciando alla potenza simbolica dell’immagine in una società mass-mediatica, rinuncia al compiacimento della propria esibizione cruenta, rinuncia a spettacolarizzarsi fino in fondo e sceglie una forma di dolore auto-lesionistico la cui forza non sta tanto in ciò che si vede, in una carne che sanguina, ma in ciò che non c’è: nelle parole che quelle labbra non dicono, in quella voce di sofferenza imprigionata volontariamente in un corpo a sua volta imprigionato. Un gesto di incredibile dignità.

“Chiudete i CIE!”, si urla finalmente a gran voce. Quasi a confermare sadicamente come le denunce verbali, le inchieste, le parole – tutte concordi da anni in una critica serrata all’esistenza dei Cie – siano in sé del tutto insufficienti a determinare l’azione politica, se non correlate ad un movimento di quest’entità fantasmatica, la pubblica opinione, che come un campo di spighe si piega ai venti dell’indignazione emotiva, abilmente soffiati dal sistema dell’informazione.  Ma la reazione morale alla protesta dei migranti carcerati non è la reazione appropriata, dal momento che rimane nel campo passeggero e aleatorio dell’emotività e contribuisce in tal modo all’occultamento della questione politica e sociale sottostante: in quale sistema politico si inserisce la struttura dei Cie? che tipo di rapporto con i migranti, con gli stranieri, sottointende? in quale maniera essa è funzionale alla nostra società? Sono queste le domande che il gesto disperato dei detenuti dovrebbe sollevare, piuttosto che trasformarsi in scontata e superficiale condanna o, peggio, essere utilizzato come spot pre-elettorale dai vari Khalid Chaouki di turno.

È lo stesso tipo di approccio che da tempo viene adottato anche nei confronti dell’istituzione carceraria, di cui il Cie è un’emanazione diretta. Un approccio umanitario pilotato con cura, basato sullo scandalo nei confronti di violenze e soprusi da parte delle guardie, che però non sfiora nemmeno le basi dell’istituzione stessa di cui la violenza, indipendentemente dalla forma che assume, è ossatura portante, significato e strumento. Come scrive Benjamin in Per la critica della violenza, infatti, non è che un’illusione ottica il pensare violenza e diritto come contraddittori: nella conformazione moderna della nostra società essi si implicano, al punto che la violenza si pone come fondatrice e conservatrice del diritto stesso. In questo senso il carcere non è un problema etico, realtivo esclusivamente al livello di sofferenza che viene imposto ai corpi, ma un problema politico, che come tale va affrontato e risolto.

L’inumanità del carcere, l’inumanità del Cie non sta quindi solo nelle angherie dei secondini, nella sporcizia, nel sovraffollamento, nelle docce similnaziste antiscabbia, ma nella segregazione in sé. Non possiamo indignarci per i primi, senza contestare in maniera assoluta la seconda. Prima che abuso sui corpi, essa ne è infatti disgregazione interiore, meno appariscente, ma ben più radicale. L’azione sapiente del potere statale è consistita probabilmente proprio nel giocare su questo equivoco di fondo: si è rinunciato (almeno ufficialmente) ad un eccesso di violenza corporale, alle torture, alla pena di morte, senza rinunciare però all’esercizio della vendetta sociale. Si è sostituita l’intensità di una ghigliottina, di una scudisciata, alla durata interminabile di un’eterna ripetizione dell’uguale, spacciando questo tormento per “giustizia”. Il gocciare del tempo al posto dello scorrere del sangue.

È all’interno di questo percorso che va letto il gesto delle bocche cucite. Il ricorso sempre più frequente all’autolesionismo, tanto nei Cie quanto in carcere, sembra la naturale espressione da parte dei detenuti di una violenza inesorabile che viene loro quotidianamente inflitta, che non ha più la forma diretta di un manganello o di una frusta, che è stata cioè in qualche modo “disinfettata” in nome del principio di intangibilità dei corpi, ma che continua a sussistere perché carne stessa dell’istituzione carceraria. Se la cosiddetta umanizzazione delle carceri ha significato semplicemente una mera regressione della violenza viva sui corpi, trasformata in logoramento della loro interiorità, la carica di violenza che pur continua a scorrere tra quelle sbarre non può che esplodere e manifestarsi in una pratica autolesionista e autodistruttiva, in una protesta disperata contro quella che Alain Brossat chiama la “menzogna della pacificazione” dei costumi carcerari: asettici, ma ugualmente (se non più) intollerabili.

Oltre all’autolesionismo, il silenzio. Una bocca cucita è una bocca che rinuncia alla parola, poiché ne comprende la tragica inutilità, l’assoluta impotenza. Ci si cuciono da sé le labbra per mostrare al mondo che esse ci vengono quotidianamente cucite, quasi che la riproposizione in forma volontaria di un sopruso di cui siamo vittime passive rafforzasse simbolicamente la drammaticità e l’ingiustizia di quel sopruso. Ma il silenzio, all’interno dell’istituzione carceraria, non è un caso. Il detenuto è per essenza il soggetto privato del diritto alla parola, proprio perché è il linguaggio a fondare e garantire l’esistenza della società civile e il carcere nasce con lo scopo precipuo di escludere l’uomo dalla società, di reciderne i legami, di renderlo numero e oggetto inerte. Il linguaggio, esattamente ciò che nella tradizione filosofica occidentale rende umano l’uomo, discriminandolo dalla bestia animale.

I Cie non sono che l’esaperazione di queste dinamiche. Per i migranti, uomini per definizione posti ai margini, fuori margine, il carcere diventa un luogo naturale. E perfino peggiore è la loro condizione: privi di colpa, esenti da pena, espropriati perfino della possibilità di contare alla rovescia un tempo preciso, finito, ignari del loro futuro e delle cause del loro destino, essi non possiedono nemmeno lo status di detenuti. Rinchiusi per il semplice fatto di essere “altro”, un altro non assimilabile, non comprensibile, non già addestrato all’ideologia imperante. Come “altro” sono i carcerati, estromessi e posti ai margini del sociale perché incapaci di accedere al consumo cui il loro desiderio viene continuamente sovra-stimolato.

Perché la nostra società, per reggersi, per funzionare come dispositivo sicuritario, come dispositivo di potere, ha un bisogno endemico di una categoria di esclusi. Siano essi migranti o delinquenti. E il carcere oggi gioca esattamente questo ruolo, decisivo, di produzione di un’alterità, illusoria e rassicurante, tra l’uomo “ordinario” e il criminale/lo straniero (due categorie che sempre più tendono a confondersi), come se tra di essi sussistesse una qualche differenza essenziale. Come se ciascuno di noi avesse in fondo bisogno, per mantenere la propria identità, di circoscrivere e negare tra quattro mura ciò che di sé non vuol vedere, riconoscere, ammettere. Ma è una frontiera assai labile quella che la serenità del nostro guardarci allo specchio individua, una frontiera che non pare più difendibile dopo che i regimi totalitari del ‘900, con la drammaticità della loro evidenza, hanno trasformato l’uomo “medio” in un criminale di massa, complice attivo di un delitto collettivo.

Un formidabile laboratorio di pratiche disciplinari, dunque, capace di produrre il diverso di cui necessita e di separarlo dal corpo popolare in nome di una fantomatica sicurezza collettiva, cui la nostra società, oggi, non è disposta a rinunciare. Soprattutto in una fase storica in cui, limati i diritti garantiti in passato da un modello assistenzialistico, allo Stato fa comodo spacciare povertà ed emarginazione non come problemi collettivi e sociali, ma come il risultato esclusivo della condotta del singolo. Del “criminale”. Una pratica che permette allo Stato di deresponsabilizzarsi rispetto ai propri prodotti, limitandosi a cercare quelle che Ulrich Beck definisce “soluzioni biografiche per problemi sistemici”. Ma non sarà la distruzione della vita di un singolo a redimere le contraddizioni laceranti della società contemporanea, né l’internamento sistematico dei migranti ad esimerci dal ripensare la nostra identità in funzione dell’incontro/confronto con l’altro, con lo straniero, imprescindibile in un contesto globalizzato. Ecco perché né l’orizzonte simbolico di labbra serrate, né le urla indignate della pubblica opinione sono sufficienti a minare le fondamenta dell’istituzione carceraria e delle sue propaggini nella psiche collettiva ed individuale dei cittadini, ma vanno inquadrati ed integrati all’interno di una critica complessiva del sistema stesso che le origina come strutture cardinali. È sul piano quindi di una modifica strutturale che la questione può essere affrontata, in un’ottica politica, economica e sociale. Il soffio del vento moralistico o della pubblicità spettacolare, oggi come ieri, non basta.

di Klopf

 

Consiglio bibliografico: Alain Brossat, Scarcerare la società

Immagine: archivi.articolo21.org


Le saracinesche abbassate dell’informazione

Abdul Raheem Yassir cartoonUno dei risultati più importanti della manifestazione del 19 Ottobre a Roma è stato l’aver portato chiaramente in superficie l’immensa trama di produzione dell’egemonia politica e culturale che sottende al sistema dell’informazione. Che i media siano abili manipolatori di dati è affermazione ormai datata, ma è utile anche questa volta non limitarsi ad asserirlo genericamente, quanto piuttosto mostrarne la prassi concreta attraverso un esempio specifico. È utile non solamente a chi in cuor suo non ha sospetto alcuno nei confronti dei circuiti mediatici mainstream, ma ugualmente e forse ancor più a coloro che ritengono di possedere una coscienza autonoma, di essere in grado di riconoscere e scansare le trappole di queste sireneiche bocche della verità. A coloro che a Roma avrebbero voluto esserci, che condividono la sensibilità e le tematiche dei movimenti che sfilavano scandendo slogan, ma hanno preferito non partire per non rimanere intrappolati in una giornata che si preannunciava epocale per durezza e generalità degli scontri. A coloro che “Erano anni che non mi capitava di sentire una chiamata alle armi così violenta!” e “Tira troppo una brutta aria!”. Perchè purtroppo anche su di loro l’imponente operazione di intimidazione condotta da quotidiani e televisioni, ripresa e rilanciata dal passaparola, ha finito per produrre gli effetti sperati.

Proviamo a sfogliare Repubblica, colosso dell’informazione italiana, in prima linea nella determinazione delle curvature d’umore della pubblica opinione. Un quotidiano che, per altro, si spaccia come appartenente all’orizzonte culturale del centro-sinistra.

19 Ottobre. “Le parole chiave: sollevazione e assedio“, comincia proprio così l’articolo sull’imminente corteo, a firma di Carmine Saviano. Sollevazione e assedio, due termini che rimandano ad un clima di guerra, a fazioni che si combattono, a spade, ferro e fuoco. Inizio promettente. “Con diversi convitati di pietra: la cosiddetta “galassia antagonista” e una serie pressoché infinita di piccole sigle, dagli anarchici agli ultrà.” Convitati di pietra, come a dire che sono sempre gli stessi, quelli instancabili che non mancano occasione per attaccare briga, così, in maniera centrifuga, giusto perché si annoiano o hanno un gran brutto carattere. De coccio, come si dice a Roma. E poi i cosiddetti “antagonisti”, tra virgolette come ciò che è folkloristico o semplicemente riportato, che è privo di un autentico riconoscimento e al tempo stesso di difficile determinazione. E una serie infinita di piccole sigle, un’accozzaglia confusa, caotica, priva di una qualche connessione e di effettiva consistenza poiché dispersa, disgregata, polifonica. Un pot-pourri della feccia, degli ultimi, dei facinorosi. Sullo sfondo della eterna e nobile Roma, ancora una volta costretta a offrire il suo dolente fianco di antico splendore alle ridicole schermaglie del volgo. Una città deserta, dove le mamme trattengono i figli in casa, le metropolitane zoppicano, le biblioteche spengono le luci e i negozianti tengono chiuse le serrande. Una città i cui abitanti scostano le tendine e trattengono il respiro. Come stesse per passare un tifone.

<Quella di svolgere una manifestazione pacifica sembra essere, nella notte di San Giovanni, una volontà comune, un desiderio che attraversa i ragazzi che assistono ai concerti e gli organizzatori della giornata. Si spera nel meglio. Anche se i segnali arrivati durante tutta la giornata di ieri parlano di rischi seri e di possibilità concrete che la situazione precipiti. Il fermo di cinque cittadini francesi; l’inseguimento, al Pigneto, di un gruppo di “incappucciati” che seguivano da lontano la manifestazione dei sindacati di base; il ritrovamento, in Viale Regina Elena, di un furgone con armi contundenti. E il dispositivo di sicurezza delle forze dell’ordine è imponente: quasi cinquemila unità sul percorso della manifestazione, operazioni di bonifica, controlli e posti di blocco nelle zone di accesso al percorso del Corteo. E gli allarmi dell’antiterrorismo crescono in intensità di ora in ora: l’ultima “misurazione” parla di “rischio 5”. Il G8 di Genova, era classificato “rischio 6,5”>. È un pericolo che cova sotto la cenere, che vola rasoterra. Piccoli segnali che sembrano preludere al peggio. Si può solo sperare. Nessun cenno dubitativo sulla legittimità degli arresti preventivi condotti alle frontiere, sulle politiche di perquisizione indiscriminata e di blocco o ritardo dei pullman indesiderati. E infine, ciliegina sulla torta, lo spettro di Genova, a risvegliare un immaginario nazionale fatto di urli, sangue, pietre, botte, felpe col cappuccio. Un immaginario in cui si sta ben attenti a non includere mai né i tonfa della Diaz o le torture di Bolzaneto né lo sdegno per l’irrisorietà della pena finale inflitta alle forze dell’ordine responsabili delle sevizie. Il fantasma di Genova spaventa sempre a senso unico.

20 Ottobre. “Niente cariche, facciamoli giocare”: quell’ordine dalla sala operativa per vincere la partita, titola a caratteri cubitali Carlo Bonini. L’articolo che racconta la giornata di manifestazione è riassunto in questo, una partita, quasi fossimo dentro un videogioco di guerra e stessimo parlando di strategie di posizione e combattimenti infantili fra soldatini, anziché della disperazione e della rabbia di migliaia di persone. Nel giorno in cui sono le persone a camminare, a diventare per un momento partecipi, attive, attraverso la discesa simbolica in piazza, Repubblica sceglie incredibilmente come prospettiva narrante unica quella delle forze di polizia, soffermandosi sulle strategie di controllo e sulla predisposizione del campo al fine di arginare ogni possibile focolare di scontro. Il seguito dell’articolo è, se possibile, di ancor maggiore cattivo gusto del titolo. “Come un wargame, il pomeriggio di Roma declina, anche nella sua autorappresentazione, un gioco di ruolo in diretta. Con le strade sgombre di auto e cassonetti. Le saracinesche dei negozi tirate giù. Le sale operazioni di Questura e Comando provinciale dei carabinieri attrezzate come avveniristici gabinetti di guerra. Immagini dall’alto nel volo ininterrotto degli elicotteri, immagini da telecamere fisse, immagini da diretta tv, nel cicalio continuo delle comunicazioni radio fra reparti, dirigenti, posti di vigilanza fissi. Per poter alla fine misurare, quando scende il buio, e alle “truppe” arriva il “messaggio di congratulazioni” del ministro dell’Interno, chi vince e chi perde in uno scontro sapientemente annunciato da settimane sui due lati della barricata come un Armageddon.”

Non una parola sui contenuti politici del corteo, sul suo significato sociale, sulla sua fisionomia intrinseca, sulla partecipazione straordinaria degli immigrati, sulle prospettive che esso apre, sulle dinamiche che lo hanno prodotto. In sua vece un climax da spy story sull’organizzazione del dispositivo di sicurezza, che si sofferma compiaciuto sul massiccio dispiegamento di mezzi tecnici e forze umane, sugli elicotteri che sorvolano le strade, sulle telecamere della Digos che non perdono un singolo fotogramma degli eventi né un solo neo dei volti, sui “cavalli di Troia” appostati nei paraggi degli obiettivi sensibili. Come se questo tipo di iper-controllo dovesse tranquillizzarci, rassicurarci sull’efficacia della materna protezione che lo Stato ci riserva, anziché terrorizzarci per la sua tentacolare penetrazione e repressione, ben più inquietante di quanto possa esserlo qualche pietra scagliata contro una vetrina. Un racconto che si chiude in modo coerente con le premesse:

Succede così che a nemmeno un’ora dalla partenza la “sortita” verso Casa Pound, la roccaforte dei “fascisti del terzo millennio”, attrezzati all’uopo con mazze, caschi e bastoni per “difendere” l’edificio che occupano, venga assorbita e spenta da un rapido dispiegamento di cordoni di polizia e carabinieri. E succede anche che, intorno alle 17, quando la manifestazione raggiunge la stazione Termini, quei “200” siano ormai seguiti istante dopo istante dalle telecamere dal basso e dall’alto. Che ne filmano i volti e ne anticipano le mosse. “Perché a questo punto – dice un ufficiale dell’Arma – gli resta un solo obiettivo. Il ministero dell’Economia”. E così sarà. Qui, è l’unico contatto violento del pomeriggio. Per l’ordine di carica, il Questore Della Rocca attende fino a quando non è evidente che l’urto non scatenerà una bolgia sul resto del corteo. “Carichiamo solo per fare arresti”, comunica ai dirigenti in strada. “Ripeto, solo per fare arresti”. Il wargame finisce qui.”

La polizia fa sfoggio della sua destrezza nel non cadere nella trappola della contestazione, nel misurare con cautela e saggezza ogni singola mossa, e di questo viene lodata nei quotidiani del regime. Intrappolati in una sorta di delirio paranoide, si finisce per essere riconoscenti alle forze dell’ordine per aver evitato un pericolo ed una violenza che erano il frutto esclusivo della loro fantasia e scaltro prodotto della produzione simbolica e culturale originata per l’occasione dal potere. E nell’ondeggiare di walzer di questo “wargame”, a fare notizia è semplicemente il fatto che non vi siano stati scontri, la negatività di un evento fantasmatico, anziché la positività di quello reale: la rivendicazione da parte della popolazione civile del proprio diritto a vivere in una casa, ad avere un salario che consenta un minimo di dignità, a difendere il proprio territorio dalle trivelle dissennate della speculazione. Ma tutto ciò passa sullo sfondo. Tutto ciò deve rimanere sullo sfondo, lontano dalla comprensione, dall’attenzione e, soprattutto, dalla partecipazione dei più.

Cala la sera, sulla grande bellezza di Roma, e sui sanpietrini intatti tornano a scivolare le rotelle dei passeggini. Di questa lunga giornata non resta che qualche tenda, chissà dove, forse più in giù, un esercito traballante di bottiglie di birra vuote allineate sui davanzali e il rammarico sussurrato in romanesco, a denti stretti, dei commercianti per aver perso inutilmente una giornata di lavoro. Chissà che sia almeno l’ultima volta, quest’anno, che gli assurdi capricci di una banda di teppisti e scansafatiche costringono il consumismo a calare per un istante spesse palpebre d’acciaio sui suoi occhi luccicanti.

di Klopf

Immagine di Abdul Raheem Yassir, vignettista iraqueno.


Gli Italiani e l’ABC della democrazia

cultural-decadence-smallSono usciti due giorni fa i risultati dell’analisi condotta dall’Ocse sulle competenze alfabetiche, matematiche ed informatiche dei cittadini adulti di 24 paesi, compresi nella fascia d’età tra i 16 e i 65 anni. Nonostante l’effettiva significanza di questo tipo di rilevazioni sia difficile da valutare oggettivamente, data l’arbitrarietà dei criteri, dei parametri e dei metodi in base ai quali esse vengono condotte, l’immagine che se ne ricava non è affatto confortante. L’Italia ne esce infatti con una sonora bocciatura: all’ultimo posto in assoluto per competenze di lettura, al penultimo per la capacità di far di conto e di utilizzare in modo efficace le tecnologie informatiche.

Un quadro talmente grave da rivelare la presenza nel nostro paese di un radicato, quanto drammatico “analfabetismo funzionale”. Siamo cioè tecnicamente in grado di leggere e scrivere, ma non siamo praticamente capaci di servircene nella vita quotidiana. Non sappiamo compilare in modo corretto una domanda d’impiego, non capiamo del tutto le clausole di un contratto che pur firmiamo, ci smarriamo di fronte a tutto ciò che è scritto, che si tratti delle geroglifiche istruzioni di montaggio di una scrivania Ikea, di un quotidiano dimenticato in un bar, di decifrare i cartelli stradali, di cercare una parola che non conosciamo in un dizionario piuttosto che di azzeccare l’orario dell’autobus nella tabella apposta alle fermate.

Il nostro punto debole? In assoluto la literacy proficiency, ovvero la capacità di “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Il 28% degli italiani, infatti, è in possesso del livello più basso di competenze nella lettura, contro il 15% degli altri cittadini Ocse e il 12% dei norvegesi. Significa che quasi un italiano su tre, se legge un libro o qualsiasi altro testo scritto, riesce a carpirne esclusivamente le informazioni più semplici, senza poterne afferrare davvero il senso globale. E in un mondo in cui la capacità di utilizzare gli strumenti informatici come fonte di conoscenza e di operatività è fondamentale – dalle previsioni del meteo, alle destinazioni dei voli aerei alla ricetta del risotto alla milanese – gli italiani vanno a fondo: non solo non conoscono le risposte ai quesiti relativi alla dimensione informatica, ma non riescono nemmeno ad utilizzare il computer per rispondere ad essi durante il test! Se non fosse la realtà di una popolazione, sarebbe una barzelletta divertente…

L’amara conclusione è che il 70% degli italiani risulta dotato di competenze ampiamente sotto la soglia di quel “minimo indispensabile per vivere e lavorare nel XXI Secolo”. Il tasso di analfabetismo funzionale di un paese è inoltre uno degli indicatori comunemente accettati del suo livello di povertà: chi è analfabeta fatica a trovare anche un lavoro di minima qualificazione o, per dirla con le curiose parole di Giovannini, è “poco occupabile”, ma d’altra parte ben più soggetto a manipolazioni politiche e ad ogni tipo di sfruttamento, sia umano che materiale.

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Confronto punteggio medio di literacy ottenuto nei Paesi partecipanti all’indagine PIAAC

Dopo vent’anni di quotidiana e capillare azione mediocrizzante del berlusconismo mediatico, questi risultati non giungono del tutto inaspettati, anche se la gravità della loro nitidezza rimane drammatica. Viene da chiedersi piuttosto se la situazione di sfacelo in cui versa la cultura italiana sia il frutto accidentale e imprevisto di politiche sbagliate e miopie decisionali, oppure se sia la tappa finale di un percorso consapevole di graduale de-pauperamento delle facoltà critiche della pubblica opinione. Un percorso che ha attraversato molteplici nodi: il progressivo aumento dei costi dell’istruzione scolastica, inversamente proporzionale alla qualità degli studi offerti; la regressione del principio di istruzione come diritto universale, accessibile ad ogni fascia di reddito, e lo sgretolamento corrispettivo dell’illusione di scalata sociale delle giovani generazioni; la riduzione della televisione a strumento di controllo e di inebetimento delle coscienze, attraverso la censura dei programmi di approfondimento e la riproposizione ossessiva di quiz, talk shows e intrattenimento di infimo livello; la trasformazione dell’informazione in infotainment, con la scomparsa del giornalismo d’inchiesta e la bulimia di contenuti cronachistico-spettacolari, nonché la ridicolizzazione del ruolo sociale degli insegnanti, resi dalle varie riforme burocrati e usurai di crediti e debiti. Una storia che conosciamo.

E mentre le università si sfasciano sotto i colpi di una silenziosa privatizzazione e capitalizzazione dei dipartimenti, gli studi umanistici vengono derisi come inutili, tagliati, accorpati, abbandonati da un numero sempre crescente di studenti. Mai come oggi, infatti, gli studenti di storia, lettere, filosofia, conservazione dei beni culturali sono stati così poco numerosi, disincentivati dall’ideologia imperante che proclama la validità esclusiva di un sapere tecnico, che sia immediatamente finalizzabile, concreto. Come se in Italia, di questi tempi, esistesse ancora un filone di studi abbastanza “utile” da allontanare lo spettro della disoccupazione… In questo senso i dati dell’Ocse sono estremamente interessanti: la peggior prova di noi la diamo proprio nella capacità di lettura e scrittura, il cuore dell’umanesimo. Quello stesso umanesimo il cui fulcro principale è il conferimento di dignità all’uomo attraverso lo sviluppo della sua capacità di ragionare in maniera autonoma, di esercitare liberamente la propria razionalità, di rapportarsi in maniera complessa e globale alla realtà.

Una società di analfabeti, una società che abbandona e deride il sapere umanistico, non è un semplice fenomeno di costume, una tendenza culturale di secondario interesse, ma costituisce al contrario un problema politico di estrema gravità, che scuote dalle fondamenta le basilari condizioni di possibilità della democrazia stessa. Infatti, come può un analfabeta rimanere critico di fronte alla proposta di programmi politici e all’operato di coloro che egli sceglie come propri “rappresentanti”? Come può anche solo comprenderne i contenuti, se si smarrisce di fronte a prove ben più banali? Se la pubblica opinione viene presentata come un elemento centrale all’interno di ogni sistema democratico, l’evidenza della sua riduzione a gregge ignorante, confermata dalle analisi dell’Ocse, pone un serio interrogativo rispetto alla sua effettiva realizzabilità, svelandone in modo brutale l’ipocrisia di fondo, quella che difende la tesi secondo cui la volontà dei cittadini sarebbe dotata degli strumenti per influenzare e determinare realmente l’andamento della politica.

È un problema che esce dalle mura della tradizione istituzionale e scotta anche nel piatto delle sinistre e dei movimenti sociali. Scotta in primo luogo per chi difende urlando la tesi della democrazia diretta. Come evitare che i cittadini, privati negli ultimi 20 anni di qualsivoglia capacità critica, vengano eterodiretti da chi detiene il potere effettivo, ovvero il controllo dei mezzi tecnici di creazione della pubblica opinione? Come impedire alla democrazia diretta di trasformarsi di conseguenza in dittatura di una maggioranza succube e “analfabeta”? E scotta per gli intellettuali che oggi, proiettandosi indebitamente in esse, credono nelle masse come motore di un possibile cambiamento. Qual è il potenziale rivoluzionario effettivo di popoli ignoranti e sapientemente manipolati?

Sono domande con cui è sempre più necessario confrontarsi, qualsiasi sia la parte politica che si difende, perché interessano lo scheletro stesso del sistema cosiddetto democratico di cui ci proclamiamo tanto orgogliosi da volerlo perfino esportare. Con la preliminare consapevolezza che, se la “massa” rimane priva di qualsiasi educazione politica nonché degli strumenti culturali necessari ad acquisirla, l’unica forma possibile di governo è la dittatura. Aldilà dei nomi più o meno zuccherini con cui si tenta di indorarla.

di Klopf

Fonte Ocse http://skills.oecd.org/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf

Immagine imieilibri.it


Posillipo. L’ape e la farfalla

800px-Napoli5Il Golfo di Napoli ammirato da Posillipo è un panorama la cui bellezza si imprime indelebilmente nella memoria di chi ne ha goduto. Se ne erano accorti già gli antichi Greci, 3000 anni fa, quando scelsero di insediarsi in questo promontorio abitato esclusivamente da rocce e arbusti e lo chiamarono Posillipo, Pausilypon, ovvero pausa dal pericolo, e dal dolore. Allora nemmeno la proverbiale perspicacia greca poteva immaginare che anche di fronte a tale spettacolo avrebbe preso dimora il dolore, nella sua intrinseca capacità di trasformarsi in forme sempre nuove e di insediarsi in ogni anfratto delle società umane.

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CIEra una volta la dignità umana

cieIl 12 Agosto nel CIE di Crotone, in seguito alla morte di uno degli “ospiti”, è scoppiata una rivolta che ha portato alla chiusura “temporanea”, ma a tempo indeterminato del centro. Non è che una delle continue proteste in cui l’esasperazione dei migranti cerca una qualche valvola di sfogo, nella speranza di essere sottratti ad una condizione di detenzione ingiustificata ed indeterminata. Nel nostro curioso Paese, infatti, chi non possiede un certificato amministrativo finisce internato con il solo timbro di un giudice di pace, mentre chi è stato condannato in ben tre gradi di giudizio scivola indisturbato sui parquets della sua villa di lusso e gioca a birilli con il governo nazionale.

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Spiagge di confine

zcVYnplgPUyL816KVslkX2Qr2bf7hpVQK8vkYUwwywE=--ambulante_spiaggiaSpiagge luoghi di confine. Storicamente limbo di transizione tra terra e mare, tra culture differenti, tra genti, sapori e costumi. Oggi nelle spiagge affluiscono però anche altre differenze, forse mai così stridenti: quelle tra ricchi e poveri, tra lusso e miseria.

La disuguaglianza sempre crescente delle nostre società trova uno dei suoi simboli più efficaci proprio nei nostri litorali. Luoghi di vacanza o di lavoro, qui si incontrano stranieri di ogni dove: ragazzi senegalesi vendono borsette finto Made in Italy a giovani russe dai lunghi capelli biondi, marocchini rifilano occhiali a tedeschi in panciolle, donne filippine massaggiano i piedi di grosse austriache addormentate sotto l’ombrellone. Si suda, in spiaggia: è il sudore di chi lavora sodo alla propria aragostea abbronzatura contro quello di chi, carico di borsoni, oggetti, drappi, macina chilometri sulla sabbia rovente, per sopravvivere. Sudano i venditori ambulanti che scappano da guardie manesche, sudano i vigilantes che li rincorrono.

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Se i beni culturali diventano mali privati

8438284368_1110b30ffdAnnunciando il ritorno dei Bronzi di Riace al museo di Reggio Calabria, il ministro Bray si lancia in un entusiastico encomio della cultura made in Italy, facendo notare che la cultura è l’Italia e che la cultura deve mostrare i nostri valori migliori che sono appunto quelli di saper includere, di saper difendere alcuni valori. La sua convinzione è infatti quella che l’Italia, ricca di tesori d’arte, debba mettere proprio la cultura al centro; e il cambiamento sta nella volontà di affidare alla cultura il compito di mostrare un differente modo di essere dell’Italia rispetto alla valorizzazione del proprio patrimonio. 

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Sigonella ceduta ai pa-droni

804px-Global_Hawk_1L’ennesimo regalo dell’Italia alle forze armate Made in Usa si chiama Ags (Alliance Ground Surveillance), un programma da realizzare entro il 2017 che trasformerà la base siciliana di Sigonella nell’avamposto militare americano più fornito per tenere sotto stretto controllo il “nemico” nordafricano, a pochi chilometri di distanza. Dopo il Muos di Niscemi, ecco venti nuovi droni ed un rinforzo di quasi mille soldati: questo il prezzo che l’isola delle arance deve pagare per la sua posizione sfortunatamente strategica.

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L’esercito smarrito

esercito-di-silvio“Assoooltooo!!”. È questo l’urlo troppo affrettato che scatena la festa sovraeccitata dello sparuto esercito di Silvio, una ventina di persone radunate in piazza del Gesù. Mentre il loro idolo viene condannato in via definitiva, essi festeggiano un’assoluzione inesistente. Gridano, sventolano bandiere, cantano, sollevano le braccia al cielo.

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Usa l’Italia

bandiera_italo_americana.8k3vfsh9dk84sc0w8gscs4c8s.1n4kr7rgh18gs08gcg0csw4kg.th«La consueta irritazione provocata dalla presenza delle forze americane in paesi stranieri è stata ampiamente assente in Italia. Rispetto alla maggior parte dei paesi la reazione in Italia è paradossale. Invece di desiderare una riduzione, gli italiani chiedono unità aggiuntive. Ufficialmente la ragione fornita è la crescita dell’instabilità in Medio Oriente, e il pericolo che ciò comporta per la Nato, e la favorevole posizione strategica dell’Italia. Però altri fattori ugualmente importanti dietro questa decisione sono la consapevolezza del rilevante contributo economico apportato dalle forze americane e la sensazione che quanti più soldati americani sono dislocati in Italia, tanto più l’Italia potrà contare sull’assistenza e la protezione degli Stati Uniti». Sono parole di Frank Nash, consigliere e assistente del ministro della Difesa Usa, in seguito ad un’ispezione delle basi militari europee. Siamo nel 1957, ma sono parole che sembrano descrivere una situazione del tutto anomala che continua ininterrotta fino ai nostri giorni.

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