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Lampedusa e la foglia di fico della vergogna

blackbirdpress.org Vergogna! titolavano i giornali all’indomani della strage di Lampedusa che è costata la vita ad un numero ancora imprecisato di migranti. È una vergogna, serpeggiava in uno stanco copione tra le parole di bipartisan ipocrisia dei politicanti di mestiere. Vergogna e orrore, rincarava infine la dose un papa Francesco sempre più pop dal palco di Assisi. E così di prima mattina, sui quotidiani del regime, ciascuno di noi trovava già la chiave di lettura dell’accaduto. Espropriati dai media perfino della capacità di elaborare autonomamente i fatti secondo le categorie che riteniamo più opportune, non abbiamo dovuto far altro che adattarci a quel sentimento preconfezionato per noi. Comodo comodo, stampato lì, a caratteri cubitali. V-E-R-G-O-G-N-A.

Vale la pena allora, nel caleidoscopio di emozioni sventagliate, soffermarsi almeno un momento sulle parole. Quelle parole che diventano marionette cangianti tra le dita dei direttori d’orchestra dell’informazione, fino a confondersi tra loro, ad essere trapiantate in campi semantici differenti, usate nei contesti più curiosi, manipolate per ottenere associazioni, suscitare affetti e determinare comportamenti. Forse una delle sfide più grosse che la contemporaneità, o ciò che verrà domani, deve affrontare è proprio il tentativo di ridare un senso alle parole. Di ricominciare ad adoperarle con cura.

La vergogna è ciò che provano Adamo ed Eva nel momento in cui si accorgono di essere nudi. Non è tanto il fatto di essere nudi a creare all’antica coppia dei problemi, ma il fatto di essere guardati e di scoprirsi nudi dinanzi a quello sguardo. Il sorgere della vergogna è cioè inscindibile dallo sguardo esterno che ci coglie in una determinata condizione e in essa ci disapprova, facendoci vivere in tutta la sua crudezza la sensazione di non corrispondere più alla nostra idea di noi stessi. Per dirla con Sartre, la vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono “caduto” nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono (L’Essere e il Nulla).

C’è una valutazione morale connessa alla vergogna, fondata sul bisogno di proteggere, nei luoghi opportuni, ciò che manifesta il valore inalienabile della persona. La vergogna infatti è sostanzialmente uno stato emotivo, espressione del senso di dignità personale, individuale. E ciò costituisce uno dei motivi per cui essa, oggi è una risposta inadeguata alle tragiche morti di Lampedusa: qui non è di noi che si parla, non sono i nostri valori né la nostra dignità ad essere scossi dalle fondamenta, ma i loro, quelli di centinaia di persone partite per cercare un futuro diverso. È la loro dignità che oggi viene negata, esposta, lacerata. Di cui oggi dobbiamo dare conto. La nostra viene in un secondo momento, di riflesso.

Oltre a protrarre un riferimento esclusivo a se stessi, il sentimento della vergogna dischiude anche un ulteriore rischio, oggi tanto più grave. Come spiegava Otto Fenichel, psicanalista viennese, la vergogna può infatti essere un fattore positivo, che sprona all’auto-trasformazione, se viene riconosciuta ed elaborata dal soggetto, ma qualora venga negata, o rimossa, essa provoca all’opposto lo sviluppo di una sorta di corazza difensiva in cui il soggetto si trincera e che consiste nell’atteggiamento per cui “mi vergogno” significa “non voglio essere visto”, e conseguentemente inizio a chiudere gli occhi e mi rifiuto di guardare. Un comportamento che ricalca l’antica credenza magica, tuttora radicata nei nostri meccanismi psichici, secondo la quale chi non guarda non può essere visto.

Ed è esattamente ciò che dobbiamo evitare: di fronte a questo orrore, nient’affatto imprevedibile o sorprendente, vergognarci per qualche giorno e poi tornare a chiudere gli occhi. L’equivoco di fondo nel trattare la vicenda nei termini della vergogna è insomma quello di farne una questione morale, legata al mondo delle emozioni, all’universo dei valori. Ma qui si tratta in realtà di qualcosa di assolutamente razionale, chiaramente determinabile, connesso piuttosto al mondo del diritto. Qualcosa che non riguarda una colpa etica, un peccato originale in versione post-moderna, ma una precisa responsabilità, politica e sociale. Traslare l’accaduto sul piano morale significa infatti non trovarsi costretti ad affrontare concretamente la realtà, non impegnarsi in quanto istituzioni e legislatori, non dover dare conto delle proprie responsabilità dirette ed effettive, preferendo rifugiarsi nella più comoda condanna verbale, in cui galoppa allegramente l’ipocrisia.

Quella di chi oggi, sempre molto eticamente, si indigna e ieri si è impegnato ad addestrare e sostenere economicamente 5000 poliziotti libici al controllo delle frontiere, nonché a ristrutturarne le prigioni-lager, in cui gli uomini vengono ammassati e torturati, le donne sistematicamente stuprate. Di chi l’altro-ieri (2008) stringeva un trattato di amicizia che legittima ed organizza la pratica mortifera dei respingimenti umani, condannata nel 2011 dalla Corte Europea di Strasburgo. Di chi millanta come unica soluzione un rafforzamento del mostruoso e assai poco trasparente Frontex, o di chi, come il nostro vetusto e onoratissimo presidente della Repubblica, proclama la necessità di creare “presidi adeguati lungo le coste” da cui partono i migranti. Adeguati esclusivamente ad ammazzare migliaia di persone ogni anno.

Rimanere sul piano morale significa inoltre prospettare una sola risposta possibile, che compariva in ogni intervista sui quotidiani di oggi: la solidarietà. Come se l’accoglienza dei profughi fosse una questione di solidarietà umana, di bontà, e non in primo luogo un dovere civico, una necessità politica ed economica, il rispetto giuridico di un diritto. Come se la soluzione al continuo stillicidio di vite nel Mediterraneo fosse dividere con un sorriso colmo di cristiana pietas la nostra pagnotta con i nuovi arrivati, o coprire le loro spalle con una coperta, e non abrogare delle leggi pensate per ridurli in schiavitù o agire nelle ambasciate per garantire loro un lasciapassare legale, evitando che siano costretti ad affidare le loro esistenza ai trafficanti di carne umana.

Oggi non è la solidarietà dei politici ad essere chiamata in causa. È la loro responsabilità, quella che si definisce come la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo determinante (Sabatini Coletti). Perché nell’orrore del sistema-immigrazione non c’è nulla di sconosciuto, nulla di naturale o immutabile, nulla di fossilizzato nella volontà divina. Quei sacchi di plastica assiepati sull’asfalto sono la conseguenza di determinate ed esplicite decisioni politiche, di precise strategie economiche e sociali, elaborate da chi era consapevole degli effetti delle proprie azioni, ma ha volontariamente preferito ignorarli per salvaguardare altri interessi. Una responsabilità che, di fronte al gonfiore di quei cadaveri, né gli abili spostamenti semantici dei media né le copiose e bilaterali lacrime di coccodrillo possono continuare ad occultare.

di Klopf

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