Un CAF lungo alla mattina

Sala d'aspetto a Risonanza Magnetica (Waiting room at Magnetic Resonance).Sono le 9.30 di un lunedì mattina di fine agosto, provincia di Vicenza. È il primo giorno di riapertura dopo le ferie e la sala d’attesa del CAF Uil è gremita. Una decina di sedie disposte a ferro di cavallo, in un corridoio corto e stretto. Prendo il bigliettino con il mio numero e mi appoggio alla parete, accennando un “Buongiorno” cui risponde un mormorio sconnesso.

Nell’angolo due signori sulla cinquantina parlano tra loro, senza guardarsi negli occhi e con parole lente, distanziate, quasi dovessero inanellarle con gradualità per non colmare troppo in fretta i tempi di attesa. Commentano la funzionalità delle varie marche di smartphone che hanno avuto e intanto scorrono le dita sui rispettivi schermi. “Ma sì, anche questo è solo business!”, commenta svogliato uno dei due, e aggiunge distrattamente “Toh, adesso attaccano la Siria”. “Anche questo è solo business”, replica l’altro con voce neutra, senza sollevare lo sguardo. Parte una musica dance a tutto volume: la donna che è con loro riceve una telefonata. Ha dimenticato una delle mille carte necessarie alla richiesta di disoccupazione, deve prima passare per l’Ufficio per l’Impiego e solo in seguito recarsi al Caf. Se ne va di pessimo umore.

Poco più in là siedono due donne di colore. Una è avvolta in un abito tradizionale, nero e rosso, e fissa immobile la parete davanti a sé; l’altra tiene fasciato in grembo un neonato ricciuto, i cui enormi occhi nocciola scrutano con intensa curiosità gli strani abitanti di quell’indecifrabile paesaggio illuminato a neon. Arriva un’altra giovane donna italiana, munita di un esagerato passeggino. Si muove con difficoltà tra le nostre gambe incrociate e trova dopo svariati tentativi il modo di parcheggiare il catafalco in un angolo della sala. Chiede che numero deve prendere per la richiesta di disoccupazione. A risponderle è Zoran, un ragazzone serbo dai capelli biondi. “È questo qui, ma oggi computer rotto e difficile fare cose. Tanta gente e solo un persona che lavora: uguale come Jugoslavia prima di guerra”, dice mentre un sorriso dall’irresistibile simpatia dilata il suo faccione rotondo.

In quel mentre arriva l’unica impiegata presente in ufficio. “Quante disoccupazioni?”, chiede con un marcato accento pugliese e l’aria stanca, osservando i presenti. La mia è l’unica mano che non si solleva. “Non so se riesco a farvi, oggi. I miracoli li fa solo chi sta su. Io no!” Si solleva un sommesso brusio di disapprovazione e la signora moldava nell’angolo borbotta qualcosa tra sé, agitando i pacchiani orecchini di finto oro.

I minuti passano, lenti e pesanti come gocce di un rubinetto mal chiuso. Un bambino di due anni e mezzo cerca disperatamente di staccare dalla parete un foglio fissato con una puntina colorata, su cui campeggiano in grassetto le scritte Come richiedere il sostegno per le spese di luce e gas e Non rinunciare alla salute: assistenza a spese farmaceutiche e cure dentistiche a prezzi accessibili. Ma la mia attenzione è attirata dall’uomo di aspetto orientale che mi siede accanto, la cui intera persona emana una dignità ed una dolcezza particolari. Azzardo un “As-salamu al-eikum” ed il suo viso si illumina d’un tratto. Si chiama Ahmed, è marocchino, ma vive in Italia da ormai 13 anni. Mi descrive la sua terra con una nostalgia dolente la cui profonda ineluttabilità mi commuove. Portati dalle sue parole, i colori acidi del tramonto sulla spiaggia di Agadir tingono improvvisamente i muri scialbi di quel non-luogo di transizione in cui ci troviamo. “Anch’io ho fatto l’università, sai,” sorride. “In mio Paese sono dottore di Archeologia. Qui faccio magazziniere.” Lo dice senza amarezza e quando gli chiedo cosa prova, risponde: “Quello che ami porti sempre con te. Rimane nel cuore, anche quando tue mani fanno altro.”

L’orrendo orologio a muro segna ormai le 12.30, ora di chiusura. Mentre me ne vado senza essere riuscita a fare quello che dovevo fare, ripenso ai volti racchiusi come perle irregolari in quel contesto orrendo e anonimo. Alla capacità straordinaria e meravigliosa dell’uomo di rendere ogni luogo abitabile, con la semplice potenza del suo sguardo, dei suoi racconti. In quell’angusto guscio di mattoni c’era un paese intero, con le sue assurdità burocratiche, le sue difficoltà economiche e d’altro lato la sconfinata ricchezza dell’incontro fra i molti popoli che lo abitano. Oggi, qui, in una banale sala d’attesa, né la provenienza, né il sesso, né l’età erano in grado di istituire tra noi una differenza, uno scarto. Paradossalmente è in questo comune e solidale sentirsi fragili ed impauriti di fronte alla perdita del lavoro che ho sentito per un istante la resistenza della nostra umanità e la sua, seppur tragica, bellezza.

di Klopf

Immagine sign-art.it


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