Quell’inchino che ci offende

carnivalSono le 11 di mattina quando la Carnival Sunshine, una nave da crociera con una stazza di oltre 102mila tonnellate, lunga 272 metri, larga 35, alta 62, arriva a Venezia, passando ad una manciata di metri da Riva Sette Martiri, pochi passi lontano da Piazza San Marco, e stringendo tra sé e la riva un vaporetto dell’Actv.

Si è trattato forse di un errore di manovra? Mentre la capitaneria di porto nega che ci sia stato un qualsiasi problema per la sicurezza della navigazione, emerge una coincidenza inquietante. Ormeggiato a pochi metri da lì, infatti, non c’era niente meno che lo yacht di Micky Arison, azionista di maggioranza ed ex amministratore delegato della Carnival. Che si sia trattato di un volontario “inchino”, di un omaggio del comandante a cotanta personalità?

Vengono i brividi al pensiero. Che per un gesto di tale stupidità si metta a rischio la sicurezza non solo della navigazione del canale, ma anche di centinaia di persone e della città di Venezia non è ammissibile e non può essere, per l’ennesima volta, ignorato dalle autorità. Non si tratta di un inchino, ma di un oltraggio. Non c’è infatti riverenza né rispetto in un gesto simile, ma la spacconeria idiota di chi gode a violentare un fragile scrigno di bellezza con il suo mostruoso fallo d’elefante.

Perché Venezia non è una città come tutte le altre. Non è una città che affaccia sul mare, ma è nel mare. Non è un agglomerato urbano di cemento e mattoni, ma un delicato ecosistema, dove acqua, aria, legno e pietra si intersecano in una sinergia antica, il cui equilibrio permette alla sua magia di continuare ad esistere. Consentire a navi abnormi di entrare in laguna significa sputare in faccia a questo equilibrio, alla sua storia secolare, giocando per mero interesse con la vita di chi lo abita e con un patrimonio artistico dell’umanità intera.

È il palcoscenico il luogo proprio di un inchino. Ed è in un palcoscenico che si è scelto di trasformare questa città. Uno sfondo da cartolina per chi scende dalla propria gabbietta e attraversa la mappa prestampata di calli dietro un ombrellino colorato. Un paio di giorni al massimo. La vista ravvicinata dal ponte della nave è il primo atto di questo spettacolo: è proprio lì che i turisti devono arrivare, nel cuore pulsante di Venezia. La salvaguardia della sua esistenza diventa perciò secondaria rispetto alla sua apparenza. La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. E così perfino i contestatori delle grandi navi diventano attori. Le loro manifestazioni di protesta e gli striscioni esposti in riva diventano, negli altoparlanti di lassù, un segnale di benvenuto dei veneziani ai turisti, i quali rispondono deliziati, sventolando fazzoletti e bandierine colorate in segno di saluto.

Trasformare la vita da sempre brulicante e multiculturale della città in un posticcio teatrino di burattini non è un destino ineluttabile, ma una precisa scelta politica. Di quella stessa politica che oggi mette quotidianamente a rischio l’equilibrio naturale della laguna per fare qualche soldo in più, facendo finta di non capire che, una volta morta Venezia, non ci sarà più nemmeno un euro da cavarne fuori. E mentre ti chiedi quanto tempo ci vorrà perché i danni arrecati da questo modello di turismo diventino davvero irreparabili, il tuo bicchiere sul tavolo inizia a tremare. Il vino ondeggia, quasi rallentato, al suo interno. Una goccia scende dolcemente lungo il bordo, una chiazza color sangue sulla tovaglia appena stesa. Qualche centinaio di metri più in là, l’ennesimo mostro navale attraversa il Canale della Giudecca.

di Klopf  

Immagine rinews.it


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