Oceano Iran. Intervista al fotoreporter Nicola Zolin

iran-08Nicola Zolin non ama le definizioni (“quando devi definire una realtà sei costretto a scegliere qualcosa ed escludere artificiosamente qualcos’altro”) ed in effetti trovare una parola che riassuma le sue scelte di vita non è affatto facile. Alle sue spalle innumerevoli viaggi, fatti evitando di volare, per raccontare attraverso la sua macchina fotografica i volti e le pieghe dei mille mondi attraversati. Un intenso percorso di incontri ed immagini che il giovane “attivista mediatico” vicentino non ha ancora smesso di percorrere. Lo incontriamo nella sua casa “temporanea”, tra gli orti e le cicale dei colli vicentini, per parlare della mostra fotografica sull’Iran che ha appena inaugurato a Bassano del Grappa e provare, attraverso la sua testimonianza, a scoprire qualcosa in più di questo paese spesso citato, di rado capito.

Il soggetto della tua mostra fotografica è l’Iran. Come mai hai scelto di recarti proprio in questo paese?

Fino a un anno fa ero uno dei molti occidentali che hanno un’idea stereotipata dell’Iran, basata su una non conoscenza o su una confusione dettata dai media e questo è stato proprio ciò che mi ha spinto ad andare lì: la voglia di andare a ricercare con i miei occhi. Ho sempre sognato di fare un viaggio via terra dall’Italia all’India, attraversando il Medio Oriente, e sono riuscito a farlo l’anno scorso. L’Iran era una tappa di questo viaggio e ne è diventata la parte più interessante, più stimolante.

Il titolo della mostra è “Oceano Iran”. Da dove nasce l’associazione tra l’Iran e l’oceano?

Nel mondo l’oceano è la cosa più vasta e al contempo più sconosciuta. Di esso sappiamo pochissimo: più del 90% delle specie animali che ci vivono ci sono ignote, così come la vegetazione che lo abita. L’oceano è per noi un mistero e per gli occidentali lo è anche l’Iran. Una realtà difficilmente catturabile, piena di diversità, di culture, gruppi etnici, lingue e situazioni geografiche: dalle montagne alte 5000 metri del nord fino al deserto, dalle case di paglia e fango alle isole sull’Oceano Indiano. È un paese immenso, grande 5 volte l’Italia, e l’oceano era l’unico modo per definire una realtà del genere, per esprimere lo stupore di fronte alla sua immensa vastità e alla ricchezza della sua storia. L’antica Persia era abitata già 7000 anni fa, è la culla dell’umanità. Sono luoghi in cui si sente l’eco della storia.

Ma perché questo paese ci è così sconosciuto? Si deve ad una forma diffusa di ignoranza oppure c’è sotto anche una qualche manipolazione politico-mediatica?

Tutto ciò che esce dal Nord America e dall’Europa ci è sconosciuto. Non studiamo la storia extraeuropea e nemmeno le relazioni nel Mediterraneo, nonostante sia stata inizialmente questa la nostra casa, il luogo in cui si è sviluppata la nostra visione dell’altro. L’Iran non lo comprendiamo: il semplice fatto che si tratti di un paese musulmano e che in esso viga la legge coranica è per noi inimmaginabile. Vivendo nell’epoca dell’impero americano abbiamo introiettato l’immagine dell’Iran come nemico: è un paese che viene costantemente demonizzato. Il problema è che purtroppo si confonde spesso tra il governo e le persone: pensiamo immediatamente al regime, alla sua politica, ma la gente comune è un’altra cosa. Sono due universi diametralmente opposti. È sorprendente: ti chiedi come possano avere un governo del genere, dato che pare impossibile nasca dalle persone.

Un italiano all’estero si sente rivolgere spesso la stessa domanda: come fanno gli italiani ad avere un governo Berlusconi? Forse la distanza tra il potere ed il popolo non è una caratteristica esclusivamente iraniana…

Sì, perché il cittadino ha una visione limitata del mondo, della politica, è concentrato principalmente sul proprio stomaco, sul bisogno immediato, vota per fame. L’Iran però è strutturato in modo tale da non lasciare spazio al cambiamento: è reso del tutto impossibile dal sistema. C’è un Consiglio dei guardiani che decide chi può essere candidato alle elezioni ed è fedelissimo alla guida suprema, l’Ayatollah. Le ultime elezioni sono andate proprio così: sono stati selezionati dal Consiglio 8 candidati su 600, quindi se anche la gente avesse voluto votare per qualcuno di più rappresentativo non avrebbe potuto farlo. L’Iran si presenta come una repubblica islamica, dotata di una certa democrazia, ma si tratta di un’illusione perché a decidere è solo Khamenei. Non è rappresentativo il poter scegliere esclusivamente tra i candidati che vengono imposti, ma probabilmente anche in Italia è così, nel senso che anche noi dobbiamo scegliere da una lista a causa della propaganda e del controllo sui media da parte dei poteri forti. La gente in fondo ha solo piccole scelte.

Noi vediamo l’Iran come un paese integralista, fondamentalista, dove la religione domina ogni coscienza. Tu che impressione hai avuto rispetto al ruolo effettivo della religione? È sentita in profondità dalla popolazione oppure viene prevalentemente strumentalizzata?

La religione è sentita da molte persone, ovviamente, soprattutto da coloro che vivono nelle zone rurali e praticano una religiosità quasi superstiziosa, come quella che fu dei nostri nonni. Però in Iran c’è anche gente che non ne vuole sentir parlare, che odia la religione ed i suoi rappresentanti. Politicamente la repubblica islamica usa la religione per mantenere il potere, ma in Iran esiste anche una società secolarizzata, progressista, aperta, che deve tacere di fronte al sistema e se può scappa dal paese. Sono queste le persone che vivono un’esistenza più triste, che soffrono di più, perché hanno una certa coscienza di cos’è il loro paese e di cosa c’è fuori.

L’universo dei giovani iraniani è una parte fondamentale della tua mostra. Che impressione ne hai avuto?

Teheran è una città progressista, in cui tanti giovani non sono religiosi né politicizzati e cercano semplicemente di vivere la propria vita come possono. Il sistema limita fortemente le libertà personali e gli scambi tra le persone, a causa di un bigottismo religioso che impedisce ai giovani di bere alcolici e alle donne di parlare con uno sconosciuto per strada. Siccome non ci sono locali o club dove conoscersi, i giovani hanno sviluppato una serie di strategie che permettono loro di vivere una vita relazionale in ogni caso. Un bell’esempio di questo è il dordor: i ragazzi si incontrano in alcuni quartieri periferici della città, dove girano con la propria auto per una, due, tre ore. Si affiancano, si guardano attraverso i finestrini, si sorridono, si salutano e se si piacciono si scambiano i numeri di telefono e nei giorni successivi si telefonano per incontrarsi. Oppure organizzano feste private, dove si beve alcool e si trovano sostanze stupefacenti. Una vita clandestina che però è in realtà normalissima e conosciuta da tutti.

In alcune tue foto si respira una profonda carica sensuale. Come vivono i giovani la sessualità in un paese dalla forte tradizione religiosa?

È una delle cose più interessanti dell’Iran. Di norma una coppia non fa l’amore prima del matrimonio e questo è consolidato nella morale comune. Nelle campagne viene ancora rispettata la tradizione per cui la prima notte di nozze i suoceri della sposa verificano che lei sia veramente vergine,  raccogliendone il sangue in un fazzolettino. In generale è molto raro che una donna arrivi non vergine al matrimonio. Poi dipende dai luoghi: nelle grandi città come Teheran il comportamento è più libero e i giovani sono abbastanza “piccanti”. Fanno l’amore, ma in maniera clandestina. Molti ragazzi mi hanno raccontato di avere rapporti principalmente anali e orali con le ragazze, in modo da preservare quantomeno una verginità formale. A questo cercano di attenersi. Chissà, forse le donne diventano davvero libere solo una volta che si sposano…

phpThumb_generated_thumbnailLa donna è un punto centrale nella nostra percezione del mondo islamico. Hai riscontrato una qualche forma evidente di discriminazione nei suoi confronti?

Non credo che ci sia una grande discriminazione della donna in Iran, perché la società iraniana non è così retrograda come si vuol pensare. L’Iran in realtà ha vissuto un periodo di pensiero liberale in cui anche le teorie femministe hanno fatto breccia nel paese. Poi dipende anche qui da area ad area. In alcune zone, come nelle campagne, la donna ha senz’altro un ruolo diverso, che non chiamerei discriminatorio, ma specifico: fa specifiche cose e non altre, il che in una società rurale è un fattore culturale antico, una forma di divisione dei lavori. Nelle città invece le donne non ci stanno a giocare questo ruolo.

Nella mostra si percepisce un forte contrasto tra donne in minigonna, più disinibite, e donne integralmente velate di nero. È un contrasto voluto?

Il contrasto è la realtà dei fatti.

L’adozione di simboli e di modi di comportamento o di vestiario occidentali da parte delle iraniane sono per te un autentico segnale di emancipazione oppure si tratta di un’esibizione esteriore che potrebbe nascondere un disagio più profondo?

Credo che in Iran sia una vera e propria forma di evasione e di liberazione, di sfogo, di espressione. Normalmente anche il semplice fatto di dover portare un velo è restrittivo, così nelle feste private le donne vogliono esprimere al massimo la loro bellezza, anche se sì, lo fanno secondo quegli standard che probabilmente sono occidentali, trasmessi per esempio attraverso il cinema. Prima della rivoluzione però anche in Iran era comune vestirsi così per le strade, mentre adesso è diventata una liberazione.

Qual è il rapporto degli iraniani con l’Occidente? Esiste un pregiudizio nei confronti degli occidentali parallelo a quello che abbiamo noi verso gli iraniani?

Anche la loro visione è un po’ confusa. Chi soffre di più dell’oppressione del regime vede l’Occidente come uno spazio di libertà, mentre gli altri lo considerano come una realtà politica che ha sempre cercato di soggiogare il loro paese, perciò apprezzano ed appoggiano il regime che sa essere autoritario, nel senso di determinato e fermo, nel difendere l’indipendenza politica dell’Iran. Le persone si trovano in realtà strette in una morsa tra un Occidente che cerca sempre di ottenere il controllo sul paese – attraverso l’imposizione di sanzioni economiche oppure veri e propri piani militari, come quello di invasione progettato dall’America nel 2004 – e la pressione del regime. Nessuno dei due fuochi è preferibile all’altro in termini di libertà.

La mostra è divisa in 4 sezioni: percezione, devozione, evasione e stasi. Come mai nell’oceano iraniano hai individuato proprio questi momenti?

Perché queste sono state le fasi del mio processo di scoperta dell’Iran, un processo che penso sia interessante da ripercorrere anche per il pubblico. La percezione è l’immagine che ci arriva dell’Iran: fondamentalismo islamico, donne che indossano chador, ampie moschee. Certe immagini sono comuni nei media occidentali ed essendo molto forti possono essere facilmente strumentalizzate. Per affermare per esempio che la donna lì è sfruttata o discriminata basta una foto particolarmente contrastata. Io mostro questa realtà con un certo sarcasmo per enfatizzare proprio questo rischio di manipolazione mediatica. Nella devozione invece volevo raccontare la religione sciita, alcune pratiche e festività in onore dell’imam. Quella iraniana è infatti una cultura religiosa fondata sul martirio, che viene regolarmente utilizzato dalla propaganda del regime per trasmettere l’idea che gli sciiti siano stati sempre perseguitati e che ci sia un nemico che trama di continuo il loro annientamento, percezione che oggi viene proiettata sull’Occidente. La cosa impressionante è che la religione si sia mantenuta nonostante il cambiamento dei tempi: certe norme risalgono ad epoche antichissime e sono state pensate per le rispettive società. Questa è forse la sfida che in linea generale l’Islam deve ancora riuscire a raccogliere: il fatto di coesistere con il cambiamento, con la modernità, con le esigenze umane di oggi.

Dell’evasione dei giovani hai già parlato. Manca solo la “stasi”: perché scegli proprio questa parola per rappresentare la vita quotidiana del popolo iraniano?

Perché la mia impressione finale dell’Iran è una sensazione di blocco, un’immobilità, un senso di vuoto. È pura stasi, nel senso che non si sa cosa accadrà domani; molti sperano che il domani sia diverso dall’oggi ed auspicano un cambiamento, ma crearlo è impossibile. Quando nel 2009 fu rieletto Ahmadinejad, scoppiò la cosiddetta rivoluzione verde: le persone sono scese in piazza per protestare e le loro aspettative si sono gonfiate sempre di più, ma lo spirito di cambiamento è stato smorzato sul nascere dalla risposta del regime e i progressisti sono stati schiacciati. Dopo la repressione le regole islamiche si sono addirittura inasprite: sono stati bloccati i social network, limitate ulteriormente le libertà civili, torturati e reclusi gli oppositori politici, chiusi i giornali più indipendenti. Si è diffusa così una disillusione enorme ed ora la gente si sente nel vuoto, non sa più cosa fare. Se già di per sé l’Iran è il paese con il più elevato numero di cervelli in fuga del mondo, in questo periodo il fenomeno ha raggiunto il suo apice, originando un’immobilità di pensiero nella società. In Iran nessuno ha più il coraggio di sperare. Si spera, ma in silenzio.

Che ruolo svolgono gli esiliati nella vita politica e culturale del paese? Come sono considerati dagli iraniani che rimangono in patria?

Sono le menti più libere, sono loro che scrivono i libri antiregime, le canzoni. A Teheran, dato che la tv locale è censurata, più della metà degli abitanti possiede un’antenna satellitare da cui si prendono i canali iraniani californiani (in California si trova una numerosa comunità iraniana), che hanno una forte influenza culturale e fanno propaganda anti-regime. Da un lato gli esiliati sono visti con interesse, dall’altro vengono considerati come ipocriti: è facile predicare il cambiamento dall’America, molto più difficile realizzarlo in patria.

La recente elezione di Rouhani ha portato un vento di moderazione ed una speranza di cambiamento nel paese, almeno dal punto di vista occidentale. Cosa ne pensi?

Quest’anno tutti si sono schierati a favore di Rouhani, che era il meno peggio tra i candidati. Sono stati i progressisti ed i giovani a farlo vincere. Lui ha dichiarato di voler allentare la morsa sui prigionieri politici e di voler condurre un dialogo più morbido con l’Occidente: 2 frasi che da sole gli hanno garantito il 51% dei voti. Questo dimostra la voglia immensa che ha la gente di cambiare. Tuttavia non c’è una reale possibilità di farlo, per questo parlo di stasi: tutto quello che si sogna non è possibile, almeno che non cambino completamente gli equilibri nel Medio Oriente.

Una situazione che è resa ancora più critica dalle sanzioni economiche che gravano sull’Iran.

Quando l’Iran ha iniziato a sviluppare il nucleare, l’America ha colto al volo l’opportunità per punire il paese attraverso queste sanzioni che in realtà stanno distruggendo primariamente la società civile, dato che il potere rimane saldo grazie alla pervasiva corruzione. È un provvedimento che ha finito per creare due odi paralleli: uno nei confronti degli USA, che stanno bloccando l’economia nazionale, e l’altro nei confronti del potere iraniano, il quale permette che questo accada.

I social network hanno svolto un ruolo centrale nelle recenti proteste in molti paesi islamici. Quanto è diffuso in Iran il loro utilizzo?

In realtà se tu accendi il tuo computer e ti colleghi a Facebook, non funziona perché è censurato dal regime, così come sono censurati Twitter, il New York Times, il Corriere della Sera e altri siti di informazione, come il Guardian o la Repubblica. Però la gente li usa lo stesso: ci sono dei proxy che consentono di connettersi dagli Stati Uniti o da altri paesi stranieri e tutti li hanno. La cosa divertente è che uno dei social network che più si è sviluppato per questo motivo è il Couchsurfing.

Qual è la cosa che più ti ha affascinato del paese?

 Mi hanno affascinato l’architettura persiana, le città costruite nel deserto, gli spazi ampi, la diversità geografica, ma soprattutto le persone: la loro ospitalità, la gentilezza, la loro umanità, molto più spiccata di quella che abbiamo noi occidentali. È un’umanità pura e disinteressata, qualcosa che purtroppo in Occidente non esiste più e che mi ha sempre spinto a viaggiare nel Medio Oriente.

Che rapporto ha l’Iran con il mondo arabo? Vi appartiene oppure possiede delle caratteristiche sue proprie, peculiari, all’interno del Medio Oriente?

L’Iran non è una cultura araba, ma una cultura persiana: è una differenza enorme. Gli arabi infatti non sono visti positivamente, in quanto conquistatori dell’antica Persia, un paese con migliaia di anni di storia che viene improvvisamente soggiogato da un’altra cultura. Per molti questo ha significato l’inizio di un’epoca buia, la perdita della propria autonomia ed indipendenza. Certo l’influenza araba è stata enorme sulla cultura persiana: il paese, che prima era in maggioranza zoroastriano, diventa islamico e viene introdotto l’alfabeto arabo. Tuttavia l’Iran non è affatto un paese arabo e forse anche per questo lo sciismo si è radicato più fortemente proprio qui, per differenziarsi dalla prevalenza sunnita che caratterizza il mondo arabo. Insomma, l’Iran è un paese islamico, ma questo non significa che sia arabo.

Nelle tue foto ricorrono muri, fessure, spiragli, riflessi, quasi volessi lasciar intravedere un mondo che si nasconde. Hai avvertito realmente questo senso di nascondimento nel paese?

Sicuramente sì. La vita iraniana è una rappresentazione. Ogni iraniano è un attore, come d’altra parte lo è ogni persona del mondo, ma in Iran forse ancora di più: le persone sono una cosa quando sono fuori e tutt’altra cosa quando tornano a casa perché la vita pubblica è sottoposta a norme largamente restrittive. La vita privata finisce per essere così un mondo completamente diverso da quella pubblica. Nelle immagini si riflette però anche il mio stato d’animo, la mia voglia di intrufolarmi e andare alla ricerca dei nascondigli, di cogliere il riflesso delle cose. È il mio spirito di scoperta che mi porta a usare l’immagine in questo modo, a inseguire una persona nascosta, un’ombra, e a scontrarmi con la mia impossibilità di accedere ad una realtà più profonda, di cui riesco a rappresentare solo la superficie.

In una  cultura  aniconica come quella islamica, come si rapportano le persone  con  un fotografo, che dell’immagine fa l’essenza stessa del suo esserci? La gente per strada, le donne velate, i giovani nei loro momenti di evasione erano infastiditi dalla tua presenza, la vivevano come invadente, oppure erano indifferenti?

Non ho avuto problemi nel fotografare, anche se magari certe volte ho avuto più ritegno a scegliere un’immagine piuttosto che un’altra. Credo che mostrare il momento dell’evasione sia nell’interesse anche degli iraniani perché è giusto che il mondo conosca le differenze che solcano questo oceano iraniano, che sappiano com’è davvero la vita nel paese. Io sento che dovunque vado mi devo fondere con il luogo in cui sono e solo allora posso fotografare. Questo significa entrare in relazione con le persone, conoscerle, far capire loro chi sono, perché fotografo, cosa mi interessa, avere il loro supporto, e viaggiando in Iran ho sempre dichiarato che volevo un’immagine realistica del paese per poterla condividere con gli occidentali, in ogni suo aspetto.

Quindi non intendi affatto la fotografia come immagine oggettiva e neutrale della realtà?

La fotografia non è mai oggettiva, è sempre un’interpretazione. Solo il fatto che sono io a scattarla è una soggettività. Il fatto che sei tu a guardarla è un’altra soggettività. L’oggettività non esiste.

Qual è il senso di presentare una mostra sull’Iran in una piccola cittadina di provincia come Bassano?

Con questa mostra vorrei aprire la visione delle persone sulla diversità di questo luogo, sulla legittimità o meno dei pregiudizi che lo connotano, sui differenti piani di cui bisogna tener conto quando se ne parla. Con tutte le persone con cui ho parlato dell’Iran ultimamente mi sono reso conto di aver aperto porte che loro nemmeno si immaginavano ed è la stessa cosa che è successa a me. Per me è stata una grande sorpresa, una meravigliosa esperienza ed una bella avventura che mi fa piacere poter raccontare.

di Klopf

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