Il lavoro (s)nobilita l’uomo

4302766565_9f2cf67b12_oIl lavoro, ciò che fino a qualche anno fa in Occidente costituiva un polo di sicurezza nella vita dei singoli, la forma della loro quotidiana regolarità e la base della loro progettualità futura, si è trasformato oggi nella massima fonte d’insicurezza ed inquietudine per milioni di persone. La conformazione stessa del lavoro sta subendo evoluzioni sostanziali, che fanno dei vecchi modi di pensarlo e delle tradizionali strutture per normarlo strumenti obsoleti. Tutte quelle conquiste sociali in termini di garanzie e tutele per il lavoratore che si era riusciti faticosamente e progressivamente a strappare al mondo del capitale e che si credevano oramai assicurate ed intoccabili nell’Europa del Welfare State regrediscono sotto i nostri occhi, una ad una, in un movimento che pare inesorabile poiché imputato a cause senza volto, a dinamiche sovranazionali, anonime, incontrollabili ed incontrastabili. Una per tutte, la “crisi”.

E così può accadere che il lavoro diventi sempre meno e sempre più esigente. Che esso, invece di essere distribuito in maniera uniforme, venga concentrato su pochi gruppi di persone, constringendole a straordinari smisurati e a concessioni sempre più estese in nome dell’agognato “privilegio” dell’occupazione. Che esso avanzi come un cingolato in un campo di papaveri, invadendo senza troppe resistenze spazi sempre più ampi dell’esistenza dell’uomo: la sua salute, le scelte di vita, la famiglia, la sfera dei sentimenti.

Siamo a Roma, nel freddo di febbraio. La Qatar Airways avvia una serie di provini per reclutare il proprio personale di volo e si raduna una gran quantità di aspiranti hostess, prevalentemente donne, attirate dall’idea di poter girare il mondo senza pensieri e con una paga niente male. Il reclutamento dura 3 giorni, nel corso dei quali le candidate vengono osservate in ogni minimo particolare: devono avere un corpo perfetto, niente cicatrici, niente peli sulle braccia(!), bei piedi, portare un trucco modesto ed avere un aspetto naturale, non devono fumare e devono essere disposte a trasferirsi per gli anni di contratto a Doha. Fin qui un tantino estetico-maniacale, ma il problema viene dopo. Le hostess dovranno infatti per contratto vivere negli alloggi della compagnia aerea, dove vige un coprifuoco che le obbliga a rincasare prima delle 3.30 di notte e dove possono ricevere visite esclusivamente dai propri familiari dello stesso sesso. Ultima clausola: impegnarsi a rimanere single per cinque anni! A qualcuno piace casto, insomma. La cosa sorprendente è che per un lavoro a simili condizioni (pagato 1.096 dollari al mese durante il periodo di prova) si siano presentate centinaia di volenterose aspiranti, per niente scandalizzate dalle richieste alquanto curiose della compagnia aerea.

Siamo in Giappone. Minami Minegishi, 20 anni, membra del famosissimo gruppo teen-pop giapponese AKB48, viene sorpresa da un paparazzo mentre esce di notte dalla casa di un popolare showman 19enne. Quando la notizia si diffonde, Minami viene licenziata in tronco. Perché? Clausola esplicita del contratto di queste ragazze che cantano in divisa da liceali è “non innamorarsi”, probabilmente per salvaguardare una superficie virginale, che sappia eccitare maggiormente le fantasie pedo-erotiche del pubblico nipponico. Proprio nel periodo delicato e vulcanico dell’adolescenza, vengono obbligate ad esasperare in modo esibizionistico un erotismo ancora acerbo, ma al contempo a congelare il proprio reale sviluppo sessuale e sentimentale. Nel momento della scoperta del rapporto col maschile, esse sono per contratto private dell’amore. Si ribellano? No! Far parte del gruppo è il sogno dorato di migliaia di ragazze giapponesi. E Minami al licenziamento risponde con un video di scuse, o meglio di autoflagellazione, che fa il giro del mondo, in cui appare piangendo amaramente, con i capelli rasati a zero con le forbici, in modo rozzo, quasi in un impeto di disperazione. Implora il perdono, si inchina, rimpiange la colpa “atroce” di essersi innamorata, di aver cercato, a 20 anni, una notte d’amore.

Siamo all’Ilva di Taranto, uno dei capitoli più bui della nostra storia industriale. I lavoratori sanno i rischi a cui le loro mansioni li sottopongono, o per esperienza diretta o per i racconti di chi si è ammalato, di chi ha perso figli, nipoti o genitori di cancro. Troppi episodi simili, non può trattarsi di un caso. Eppure continuano ad andare al lavoro, per uno stipendio che altrimenti, nelle brulle terre di Puglia, non si saprebbe dove andare a cercare. Quando scoppia pubblicamente lo scandalo, quando i dati scandiscono ciò che il timore prima si limitava soltanto a sussurrare, ti aspetteresti una manifestazione imponente di rabbia e sdegno contro i vertici dell’azienda, contro quel massacro distillato negli anni, penetrante e infido come i vapori tossici da cui è provocato. Ti aspetteresti una rivolta sociale. Invece accade qualcosa di diverso: i lavoratori manifestano sì, ma a difesa dell’azienda che li uccide per il proprio profitto, pronti a sacrificare l’inalienabile diritto alla salute purché la fabbrica non chiuda i battenti. Che quella fabbrica continui a sfornare il suo liquido incandescente e i suoi liquami fetidi viene prima della salute di centinaia di persone, viene prima della salvaguardia dell’ambiente, viene prima dell’integrità fisica dell’intera comunità locale. Tra la salute ed il lavoro molti degli operai di Taranto scelgono il lavoro. “Meglio rischiare di morire di cancro tra 15 anni, che morire oggi di fame”, dicono con un realismo agghiacciante, quasi in coro. Meglio una probabilità lontana di morte, che la certezza odierna della povertà.  Un coro a cui si uniscono sindacati ed istituzioni, preoccupati di perdere un altro tassello fondamentale del siderurgico italiano, intrappolati nel disperato tentativo di fermare il crollo dell’ennesimo mattone dell’economia nazionale sgretolato dall’acidità corrosiva della crisi. Inebetiti in una paralisi mentale che li costringe in una paradossale coazione di morte a reiterare un modello di produzione che nel Paese non ha più senso né possibilità di sopravvivenza, accelerando così il collasso economico generale, invece che tentare di elaborare nuove prospettive, di studiare una qualche modalità di riconversione.

Questo che oggi subiamo sulla nostra pelle è il movimento di ritorno ad una completa sottomissione alle logiche tiranniche del capitale, che avanza con passi da gigante e brucia in velocità e potenza sia gli strumenti di controllo e tutela di cui finora i lavoratori si sono serviti, sia le elaborazioni teoriche e politiche proposte dall’intellighenzia. Una macchina il cui ingranaggio principale è il ricatto, quello tremendo per cui si è messi nelle condizioni di dover scegliere in maniera sempre più drastica tra il lavoro e la vita e che conduce i più a preferire, tra i due, il lavoro. È questa l’unica e vera decadenza di cui, in questi giorni, piacerebbe sentir discutere.

di Klopf

Immagine: imille.org


Comments are disabled.