Gocce di utopia e proiettili di realtà

egittoCi sono immagini che bruciano. Immagini che sfondano lo schermo dello spazio e del tempo e si infilano come proiettili nella coscienza del mondo, dissolvendo per un istante la sua consueta patina d’indifferenza. Immagini che diventano istantaneamente simboli.

È un ragazzo che cammina contro un carro armato. Completamente disarmato. Un’uniforme troppo sottile: t-shirt chiara su un paio di jeans, guscio di conchiglia contro l’acciaio più sofisticato del mondo. La sua città brucia, la sua gente manifesta per le strade, cercando rifugio dietro barricate improvvisate ad una violenza esplosa d’un tratto, in un pomeriggio d’estate. Molti amici non sono più lì, a condividere la rabbia. Lui procede a passi lenti, verso il blindato, mentre i suoi compagni fuggono spaventati. Forse cerca dentro di sé una forza che non ha, forse respira profondamente o prega quel dio ora troppo lontano, qualunque sia il suo nome.

Piazza Tienanmen. Altro ragazzo, altro carro armato. Il gesto estremo di chi fa della propria lampante impotenza una sublime forma di sfida al potere. Il collegamento viene spontaneo…eppure questa è un’altra storia. I movimenti del ragazzo egiziano (quale poi il suo nome?) non suggeriscono un atteggiamento di sfida. Si ferma, ad un paio di metri dal mezzo blindato. Allarga le braccia. È quasi un grido di fiducia disperata, un grido senza voce. Siamo fratelli. Sono disarmato, sono qui, in piazza per il nostro Paese. Per il nostro comune futuro. Non mi puoi sparare, fratello. Non avrebbe senso. Perché mai dovresti farlo? Guardami, le mie braccia nude, lo stesso dio. Siamo le due facce della stessa medaglia. So che lo sai. Non mi puoi sparare.

Ma l’urlo non penetra corazze così dure. Troppi strati di acciaio a dividere i cuori, a deviare gli sguardi. A rendere “obiettivo” un uomo. Un fratello. Quel colpo che infine parte non fa cadere a terra solamente un uomo. Quel colpo abbatte ogni fiducia naturalmente umana nella giustizia, nella solidarietà, nella comprensione. Su quel suolo si accascia ciascuno di noi.

E tu rimani a guardare, nell’impotenza di sempre, mentre i politici balbettano, preda dei loro micro-interessi economici come di un morbo incurabile. Ti chiedi come sia potuto accadere tutto questo. Sai che non è l’Egitto, sai che non è un solo luogo. Quelle mani scarne alzate di fronte ad un ordine smisuratamente più potente di loro, quell’umanità che sanguina, sono lì oggi, come potrebbero essere qui domani. Come già sono qui, in altre forme, sotto altri veli.

Intanto le finestre del Cairo non hanno più tendine, nè panni stesi al sole, trasformate dai cecchini in trampolini di morte. Non sono solo militari in borghese, molti sono civili. Egiziani che uccidono altri egiziani, che sparano perfino su chi soccorre i feriti, quasi a negare anche l’ultima forma di pietà, quella verso i deboli, verso i morti, quella che Vico pone come atto di nascita dell’umanità in quanto tale. I proiettili di Sarajevo, scagliati contro donne con le borse della spesa, contro bambini, contro autisti d’autobus. Quale causa può giustificare tutto questo? Chi sono i nemici, noi? Loro? Chi sono i terroristi, noi? Loro? Cosa è noi e cosa è loro?

Quello che per uno è un terrorista è per l’altro un lottatore per la libertà, diceva un capo di Shin Bet. Eppure vorremmo che la libertà fosse altro. Altro dalla sottomissione alla violenza del più forte, altro dall’obbedienza a chi ha sterminato coloro che prima ha trasformato artificiosamente in nemici. Vorremmo non vedere più le stesse immagini, su sfondi diversi. Vorremmo non sedere davanti a quel maledetto schermo e stringere tra le dita rabbiose la solita vecchia fodera di divano, schiacciati dalla stessa sensazione di impotenza. Utopisti? Forse. Sì. In fondo ha un suono più dolce di assassini.

http://video.repubblica.it/dossier/egitto-caos/egitto-il-manifestante-disarmato-colpito-dai-militari/137665/136208?ref=HREA-1

di Klopf

Immagine news.leonardo.it


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