Giornalista: il mestiere impossibile

equo_compenso_interna_nuovaFare il giornalista diventa in Italia ogni giorno più difficile. Un privilegio per quei pochi che possono permetterselo o un lungo martirio per coloro che decidono di tentare la sorte ed intraprendere per passione questo percorso.

Come si diventa giornalisti nel Bel Paese? È il sogno nel cassetto di molti giovani, guidati dalla curiosità di capire il mondo che li circonda e dal desiderio di raccontarlo, facendosi voce di un reale che, in una società dell’informazione, esiste solo se raccontato, diffuso. Per diventare giornalisti professionisti occorre essere ammessi ad un periodo di praticantato di 18 mesi presso una redazione e frequentare un corso di formazione promosso dall’Ordine dei giornalisti (Odg), oppure iscriversi ad un biennio di studi in una delle scuole ufficiali di giornalismo riconosciute dall’ordine stesso, prima di sostenere un esame per essere ufficialmente iscritti all’albo. E qui cominciano i problemi.

Le scuole ufficialmente riconosciute sono poche e molto costose. Si va dai 10.000 euro biennali di Urbino, ai 14.000 della Walter Tobagi di Milano fino ai 20.000 della Luiss di Roma. Cifre che vengono peraltro sborsate alla cieca, dal momento che non esistono graduatorie di merito rispetto alle scuole né si conosce la percentuale di allievi che hanno ottenuto un posto fisso al termine degli studi. Se non si è figli di ricchi non rimangono che il praticantato o la sfilza di stage, un percorso lungo e tortuoso, che il più delle volte costringe ad anni di lavoro gratuito, o semi-gratuito, nelle redazioni dei giornali e che prevede scarsissime forme di tutela.

La realtà è che sia gli “studiati” che i “praticati” rimangono collaboratori a oltranza, pagati dai 2,5 euro fino a 10 euro a notizia. In molte redazioni on-line, semplicemente non pagati. Questo significa anni e anni di precariato. Così è sempre stato, dicono. Ma c’è una differenza: in passato si trattava davvero di una fase di inserimento transitoria, l’immancabile gavetta a cui nessuno sfuggiva, ma che veniva regolarizzata nel tempo. Ora invece il precario rimane tale, con scarsissime speranze di assunzione. Una condizione peggiorata dal passaggio all’informazione digitale, che ha portato ad uno snellimento delle redazioni fisse e ad un aumento esponenziale dei collaboratori a distanza, necessari a coprire l’immensa mole di notizie in tempo reale del web riducendo al contempo i costi.

C’è chi viene pagato 2 euro per una notizia, se questa però raggiunge almeno duemila visualizzazioni, cioè viene cliccata sul sito almeno duemila volte. Ma se la notizia è al di sotto delle 800 battute non viene pagata. Il compenso scatta dalla 801esima riga in su. Al di sotto il lavoro viene di fatto regalato all’editore. Se invece si tratta di un “pezzo” vero e proprio, il compenso può salire anche a 15 euro, sempre che raggiunga le duemila visualizzazioni web. Altrimenti non si vede una lira. Come se andassimo dal medico e gli dicessimo: ti pago solo se mi guarisci. (A. Ferrigolo, Reset.it)

I giornalisti in Italia sono troppi, alimentati dal business di scuole e master a pagamento che non smettono di soffiare aria sulle speranze dei giovani e dagli editori che sfruttano la carica ideale insita in questo mestiere per disporre di un esercito di penne a poco prezzo. Si tratta di persone che molte volte amano intensamente il loro lavoro, ma che vengono di continuo frustrate e schiacciate da un sistema che nega loro qualsiasi tipo di sicurezza economica e che li costringe a lavorare secondo il criterio della quantità, anziché della qualità. Per sopravvivere occorre produrre molto, indagare meno, non curare troppo forma e contenuto, trascurare le lunghe ricerche sulle fonti, magari usare quelle di seconda mano, che spostarsi costa e nemmeno la benzina e il telefono ti vengono rimborsati.

Si può avere un’informazione di qualità su queste basi? No, perché inevitabilmente il pane viene prima della deontologia e così finisce che proliferano i giornalisti-megafono, di cui i vari politicanti hanno sempre un gran bisogno per esaltare le proprie prodezze. È la fine del giornalismo? magari per colpa del web? No, forse è solo la fine dei giornali come li abbiamo conosciuti finora, a favore di un nuovo tipo di informazione, più contaminata con i suoi utenti, più vicina allo scambio che al monologo. Ma in questo nuovo mondo i giornalisti non si estinguono, anzi forse ne abbiamo ancora più bisogno, perché ci aiutino a selezionare, cogliere, interpretare, valorizzare e capire le notizie che si moltiplicano davanti ai nostri occhi. Non è la loro esistenza, ma loro condizione che va oggi ripensata. E ri-tutelata.

di Klopf

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