La penetrazione del virtuale

tom wesselmann

Li chiamano “erbivori”, come gli animali che si nutrono di sola vegetazione, senza conoscere il piacere succulento della carne, la sfida inebriante della caccia, la velocità felina dell’agguato. Sono tutti coloro che cercano una sessualità puramente virtuale, veicolata da video, chat, social network, e da essa si ritengono completamente appagati, in essa trovano il proprio estatico godimento. Tutti coloro che rinunciano all’odore e al sapore della carne e dichiarano di non provarne nostalgia o, per i più giovani, di non desiderarlo affatto.

Nato nel Giappone dal volto inquietante degli hikikomori, l’amore puramente virtuale si è diffuso in tutto il mondo e attraversa oggi una fase di crescita esponenziale, soprattutto tra gli adolescenti. Sempre più persone utilizzano infatti il web per esplorare e stimolare la propria sessualità, cercando nel deserto delle sue informatiche trame oasi di eccitazione, spiragli di calore umano. Una dinamica che nasce in connessione allo sviluppo di un mezzo tecnologico, la rete, e all’ampliamento quantitativo e qualitativo del suo bacino di potenzialità, determinando nei suoi utenti quelle che Baricco definiva “mutazioni antropologiche”. Lungi dal costituire uno strumento neutrale che può essere sfruttato e manipolato liberamente dalle persone per soddisfare i propri bisogni, internet sta poco a poco plasmando l’uomo a sua immagine e somiglianza, diffondendo linguaggi, automatismi percettivi, ritmi, dinamiche sociali, comportamenti. Un processo inevitabile, inscritto nell’esistenza stessa di ogni tecnologia, nella dialettica estremamente complessa della strumentalità, mai riducibile a mera e passiva medietà rispetto ad un fine determinato, ma capace di retroagire in maniera profonda sul soggetto che la pratica.

Il ricorso all’amore virtuale in sostituzione all’amore in carne ed ossa rappresenta uno scalino ulteriore in questa direzione: in esso diviene particolarmente evidente la penetrazione del monopolio tecnologico fin nei recessi più intimi della psiche umana, la sua capacità di totalizzare anche la dimensione più segreta e profonda del nostro essere. Una porzione sempre crescente di persone, in maggioranza ragazzi/e, non si limita infatti ad integrare la propria sessualità con immagini e stimoli virtuali, ma in essi si trincera in maniera esclusiva, ad essi sacrifica la realtà, la concretezza dei corpi, l’universo sensoriale che accompagna lo scambio sessuale, innescando una spirale comportamentale che conduce molte di loro a non essere più in grado di adottare una relazionalità “normale”, diretta, con gli altri. O, peggio, a non desiderarla più.

Quasi si fosse affievolita, oggi, la voglia e la facoltà di costruire relazioni, nel senso più profondo di condividere ciò che si è ed il proprio percorso, di mettersi in gioco per davvero, di offrirsi “nudi” allo sguardo critico dell’altro, alla possibilità sempre latente di un suo giudizio negativo, di una sua presa di distanza. Ci si abbandona alla ricerca di un’eccitazione episodica e discontinua, vorace e nichilistica come gli attacchi di fame di un bulimico, che si sottrae all’assunzione di responsabilità che ciascun rapporto interpersonale di per sé richiede, in quella che pare l’ennesima manifestazione della generale deresponsabilizzazione del singolo che l’edonismo della società del consumo ha innescato.

A separare sé dall’altro l’algida superficie di uno schermo. A separare il proprio immaginario dalla concretezza intrinsecamente ambivalente della realtà una barriera protettiva insuperabile. Si preferisce allora rimanere nel conosciuto e rassicurante involucro del proprio fantasmatico desiderio, piuttosto che sottoporlo alla prova dell’incontro effettivo con l’altro, all’amara frustrazione che può derivarne. Un’incertezza che la dimensione virtuale non prevede, costituendosi in sé come puro immaginario, fantasia esposta e trasfigurata in immagine, cristallizzazione traslucida del desiderio stesso le cui traiettorie e velocità sono modulabili a piacere e i cui binari corrono paralleli verso stazioni programmate, senza le continue deterritorializzazioni centrifughe del reale, ma, allo stesso tempo, senza il fascino insostituibile della sua indecidibilità.

La pornografizzazione dell’atto sessuale, nell’esplicitazione ossessiva della nudità, nello zoom vertiginoso sul coito, ha finito per estirpare di fatto la sua malìa, la curiosità fremente nei suoi confronti. Ha privato l’amore del mistero, della sorpresa, trasformando il sesso in un meccanismo, pratica atletica soggetta ad indici di prestazione e valutabile attraverso gradazioni predefinite di soddisfacimento. Un contesto nel quale l’amore romantico, quello intriso dell’angoscia sublime nei confronti della risposta dell’altro, non trova più spazio, sostituito da un amore meramente narcisistico, in cui il soggetto resta avvinghiato in un circolo chiuso con se stesso e l’altro appare solamente come oggetto di stimolazione esterna.

Per quale motivo stentiamo oggi ad accettare che l’universo del nostro immaginario sia costretto a confrontarsi con la realtà dell’altro? con la sua puzza, con la sua stanchezza, con la sua goffaggine? più semplicemente, con la sua eterna e sfuggente alterità? Addestrati dalla società dei consumi a volere e ad ottenere senza fatica soddisfazioni continue, sembriamo divenuti incapaci di affrontare la benché minima discrasia dello stato di cose rispetto ai contenuti del nostro desiderio, di gestire una frustrazione che abbiamo disimparato a conoscere nell’universo baloccato dell’iper-stimolazione pubblicitaria.

Se mai come oggi, grazie al proliferare di mezzi tecnici atti alla riproduzione e rappresentazione di immagini, reale e virtuale tendono a sfumare l’uno nell’altro, a divenire indiscernibili, appare sinistramente profetica l’analisi della società dello spettacolo di Guy Debord come dimensione in cui il mondo delle merci si salda con il mondo dei media facendo slittare la realtà nella finzione dell’immagine. In cui l’individuo finisce per vivere come felicità quel che non è altro che la solitudine di una contemplazione alienante. In cui l’appropriazione reale viene sostituita dall’appropriazione immaginaria.

E forse sta proprio qui il significato più profondo del fenomeno “erbivoro”, nel soffermarsi interrogativamente sulla sabbiosa terra di mezzo tra reale e immaginario, tra fatticità e desiderio. Nel mettere in questione la loro presupposta differenza e la possibilità di attribuirgli un diverso grado di verità. Un limite in cui rischia di incorrere anche l’ultima grande forma di critica radicale, quella che denuncia la spettacolarizzazione del reale, nel momento in cui aderisce ancora una volta ad un modello classico del reale contrapposto all’apparenza, mentre non c’è physis che non sia anche techne, non c’è presentazione che non si dia già come rappresentazione. Per dirla con le parole di Jean-Luc Nancy, “non c’è società senza spettacolo, poiché la società è lo spettacolo di se stessa”.

di Klopf

Immagine: Tom Wesselmann


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