Quelle labbra cucite sull’istituzione carceraria

archivi.articolo21.org Non sono facili da dimenticare, le bocche cucite dei migranti rinchiusi nel Cie di Roma. Un fendente lanciato nell’immaginario collettivo proprio nel momento in cui le feste natalizie sono solite saturarlo con la loro caramellosa leziosità. E mentre le nostre labbra sono lì, a spalancarsi, un po’ gaudenti un po’ nauseate, di fronte alla consueta sovrabbondanza di cibi e leccornie, le loro si serrano in un sinistro silenzio, i due lembi congiunti da un filo sottile. In sè l’immagine è meno truce di quanto la penseremmo, di quanto, forse, la vorremmo per poterci indignare con adeguato vigore: non c’è sangue, né piaghe o bubboni, né tagli o ferite purulente, contorsioni o dolore evidente. Due piccoli fori e il filo strappato a un maglione, a una felpa. Inspiegabilmente pulita, quella bocca che, muta, ci interroga. Un gesto che, pur non rinunciando alla potenza simbolica dell’immagine in una società mass-mediatica, rinuncia al compiacimento della propria esibizione cruenta, rinuncia a spettacolarizzarsi fino in fondo e sceglie una forma di dolore auto-lesionistico la cui forza non sta tanto in ciò che si vede, in una carne che sanguina, ma in ciò che non c’è: nelle parole che quelle labbra non dicono, in quella voce di sofferenza imprigionata volontariamente in un corpo a sua volta imprigionato. Un gesto di incredibile dignità.

“Chiudete i CIE!”, si urla finalmente a gran voce. Quasi a confermare sadicamente come le denunce verbali, le inchieste, le parole – tutte concordi da anni in una critica serrata all’esistenza dei Cie – siano in sé del tutto insufficienti a determinare l’azione politica, se non correlate ad un movimento di quest’entità fantasmatica, la pubblica opinione, che come un campo di spighe si piega ai venti dell’indignazione emotiva, abilmente soffiati dal sistema dell’informazione.  Ma la reazione morale alla protesta dei migranti carcerati non è la reazione appropriata, dal momento che rimane nel campo passeggero e aleatorio dell’emotività e contribuisce in tal modo all’occultamento della questione politica e sociale sottostante: in quale sistema politico si inserisce la struttura dei Cie? che tipo di rapporto con i migranti, con gli stranieri, sottointende? in quale maniera essa è funzionale alla nostra società? Sono queste le domande che il gesto disperato dei detenuti dovrebbe sollevare, piuttosto che trasformarsi in scontata e superficiale condanna o, peggio, essere utilizzato come spot pre-elettorale dai vari Khalid Chaouki di turno.

È lo stesso tipo di approccio che da tempo viene adottato anche nei confronti dell’istituzione carceraria, di cui il Cie è un’emanazione diretta. Un approccio umanitario pilotato con cura, basato sullo scandalo nei confronti di violenze e soprusi da parte delle guardie, che però non sfiora nemmeno le basi dell’istituzione stessa di cui la violenza, indipendentemente dalla forma che assume, è ossatura portante, significato e strumento. Come scrive Benjamin in Per la critica della violenza, infatti, non è che un’illusione ottica il pensare violenza e diritto come contraddittori: nella conformazione moderna della nostra società essi si implicano, al punto che la violenza si pone come fondatrice e conservatrice del diritto stesso. In questo senso il carcere non è un problema etico, realtivo esclusivamente al livello di sofferenza che viene imposto ai corpi, ma un problema politico, che come tale va affrontato e risolto.

L’inumanità del carcere, l’inumanità del Cie non sta quindi solo nelle angherie dei secondini, nella sporcizia, nel sovraffollamento, nelle docce similnaziste antiscabbia, ma nella segregazione in sé. Non possiamo indignarci per i primi, senza contestare in maniera assoluta la seconda. Prima che abuso sui corpi, essa ne è infatti disgregazione interiore, meno appariscente, ma ben più radicale. L’azione sapiente del potere statale è consistita probabilmente proprio nel giocare su questo equivoco di fondo: si è rinunciato (almeno ufficialmente) ad un eccesso di violenza corporale, alle torture, alla pena di morte, senza rinunciare però all’esercizio della vendetta sociale. Si è sostituita l’intensità di una ghigliottina, di una scudisciata, alla durata interminabile di un’eterna ripetizione dell’uguale, spacciando questo tormento per “giustizia”. Il gocciare del tempo al posto dello scorrere del sangue.

È all’interno di questo percorso che va letto il gesto delle bocche cucite. Il ricorso sempre più frequente all’autolesionismo, tanto nei Cie quanto in carcere, sembra la naturale espressione da parte dei detenuti di una violenza inesorabile che viene loro quotidianamente inflitta, che non ha più la forma diretta di un manganello o di una frusta, che è stata cioè in qualche modo “disinfettata” in nome del principio di intangibilità dei corpi, ma che continua a sussistere perché carne stessa dell’istituzione carceraria. Se la cosiddetta umanizzazione delle carceri ha significato semplicemente una mera regressione della violenza viva sui corpi, trasformata in logoramento della loro interiorità, la carica di violenza che pur continua a scorrere tra quelle sbarre non può che esplodere e manifestarsi in una pratica autolesionista e autodistruttiva, in una protesta disperata contro quella che Alain Brossat chiama la “menzogna della pacificazione” dei costumi carcerari: asettici, ma ugualmente (se non più) intollerabili.

Oltre all’autolesionismo, il silenzio. Una bocca cucita è una bocca che rinuncia alla parola, poiché ne comprende la tragica inutilità, l’assoluta impotenza. Ci si cuciono da sé le labbra per mostrare al mondo che esse ci vengono quotidianamente cucite, quasi che la riproposizione in forma volontaria di un sopruso di cui siamo vittime passive rafforzasse simbolicamente la drammaticità e l’ingiustizia di quel sopruso. Ma il silenzio, all’interno dell’istituzione carceraria, non è un caso. Il detenuto è per essenza il soggetto privato del diritto alla parola, proprio perché è il linguaggio a fondare e garantire l’esistenza della società civile e il carcere nasce con lo scopo precipuo di escludere l’uomo dalla società, di reciderne i legami, di renderlo numero e oggetto inerte. Il linguaggio, esattamente ciò che nella tradizione filosofica occidentale rende umano l’uomo, discriminandolo dalla bestia animale.

I Cie non sono che l’esaperazione di queste dinamiche. Per i migranti, uomini per definizione posti ai margini, fuori margine, il carcere diventa un luogo naturale. E perfino peggiore è la loro condizione: privi di colpa, esenti da pena, espropriati perfino della possibilità di contare alla rovescia un tempo preciso, finito, ignari del loro futuro e delle cause del loro destino, essi non possiedono nemmeno lo status di detenuti. Rinchiusi per il semplice fatto di essere “altro”, un altro non assimilabile, non comprensibile, non già addestrato all’ideologia imperante. Come “altro” sono i carcerati, estromessi e posti ai margini del sociale perché incapaci di accedere al consumo cui il loro desiderio viene continuamente sovra-stimolato.

Perché la nostra società, per reggersi, per funzionare come dispositivo sicuritario, come dispositivo di potere, ha un bisogno endemico di una categoria di esclusi. Siano essi migranti o delinquenti. E il carcere oggi gioca esattamente questo ruolo, decisivo, di produzione di un’alterità, illusoria e rassicurante, tra l’uomo “ordinario” e il criminale/lo straniero (due categorie che sempre più tendono a confondersi), come se tra di essi sussistesse una qualche differenza essenziale. Come se ciascuno di noi avesse in fondo bisogno, per mantenere la propria identità, di circoscrivere e negare tra quattro mura ciò che di sé non vuol vedere, riconoscere, ammettere. Ma è una frontiera assai labile quella che la serenità del nostro guardarci allo specchio individua, una frontiera che non pare più difendibile dopo che i regimi totalitari del ‘900, con la drammaticità della loro evidenza, hanno trasformato l’uomo “medio” in un criminale di massa, complice attivo di un delitto collettivo.

Un formidabile laboratorio di pratiche disciplinari, dunque, capace di produrre il diverso di cui necessita e di separarlo dal corpo popolare in nome di una fantomatica sicurezza collettiva, cui la nostra società, oggi, non è disposta a rinunciare. Soprattutto in una fase storica in cui, limati i diritti garantiti in passato da un modello assistenzialistico, allo Stato fa comodo spacciare povertà ed emarginazione non come problemi collettivi e sociali, ma come il risultato esclusivo della condotta del singolo. Del “criminale”. Una pratica che permette allo Stato di deresponsabilizzarsi rispetto ai propri prodotti, limitandosi a cercare quelle che Ulrich Beck definisce “soluzioni biografiche per problemi sistemici”. Ma non sarà la distruzione della vita di un singolo a redimere le contraddizioni laceranti della società contemporanea, né l’internamento sistematico dei migranti ad esimerci dal ripensare la nostra identità in funzione dell’incontro/confronto con l’altro, con lo straniero, imprescindibile in un contesto globalizzato. Ecco perché né l’orizzonte simbolico di labbra serrate, né le urla indignate della pubblica opinione sono sufficienti a minare le fondamenta dell’istituzione carceraria e delle sue propaggini nella psiche collettiva ed individuale dei cittadini, ma vanno inquadrati ed integrati all’interno di una critica complessiva del sistema stesso che le origina come strutture cardinali. È sul piano quindi di una modifica strutturale che la questione può essere affrontata, in un’ottica politica, economica e sociale. Il soffio del vento moralistico o della pubblicità spettacolare, oggi come ieri, non basta.

di Klopf

 

Consiglio bibliografico: Alain Brossat, Scarcerare la società

Immagine: archivi.articolo21.org


No Responses to “Quelle labbra cucite sull’istituzione carceraria”

  • Etghrit

    bentornato/a klopf!

    Condivido l’analisi teorica sulla funzionalità dell’istituzione carceraria nelle sue varie forme per un sistema di democrazia zoppa, ma non credo che si possa cambiare radicalmente.
    Così come Basaglia é riuscito a far cancellare i manicomi partendo da varie esperienze all’interno
    di diverse strutture che hanno saputo creare modelli alternativi di cura ma anche una nuova cultura sulla malattia mentale, credo sia giusto valutare positivamente i vari interventi critici, compreso quello di Khalid Chaouki sceso in campo come parlamentare che crede nella partecipazione democratica all’interno del suo partito, ma anche in forme più dirette di denuncia. Spezzo quindi una lancia in suo favore.

    La mia deformazione professionale mi fa segnalarti un refuso nella parola realtivo x relativo.